Van Gogh, certamente, è stato argomento di numerosi film. Lo rende attraente, più ancora della sua influenza sulla pittura del Ventesimo secolo, una serie di fattori, quali la forza magnetica di molti dei suoi quadri, il dilemma sulla sua pazzia, la morte prematura (a 37 anni) in circostanze mai chiarite.

Ci si chiede come un uomo così fragile abbia saputo profondere tanta energia nei suoi quadri “Dimmi, dimmi dove nasce la fantasia…” domandava Shakespeare. Risponde, con una visione del tutto nuova, il pittore e regista newyorchese Julian Schnabel, in At Eternity Gate, il suo quinto lungometraggio presentato alla 75a Mostra di Venezia. Non è una ennesima biografia del pittore, bensì una ricerca sulla realtà interiore che animava Vincent nell’estrema fisicità del suo dipingere e sul modo in cui vedeva la realtà che dipingeva.

Il focus del film è sugli ultimi giorni della vita dell’artista, anche se inframmezzati da flashback di vita precedente. Con l’aiuto di uno sceneggiatore del calibro di Carrière (ha lavorato con Buñuel, Ferreri, Malle, Godard, per citarne alcuni), Schnabel crea scene con Vincent, ora da solo, alla ricerca della “sua” natura, ora in dialoghi che avrebbe potuto pronunciare, anche se non ve ne è traccia nelle biografie. Il film è incentrato sull’atto del dipingere e riesce a darcene una descrizione di assoluta novità.

Così il regista descrive la genesi del film: “Abbiamo cominciato a scrivere insieme con Carrière la sceneggiatura e a leggere molto, ma non con l’idea di fare una biografia o di rispondere alle solite domande”. A questo ci sentiamo di aggiungere che la sensibilità artistica di Schnabel lo ha aiutato a leggere nei quadri stessi di Van Gogh molte delle nuove informazioni che cercava, e a tradurle in immagini filmiche che sono esse stesse quadri in stile vangogghiano. Il regista prosegue: “Era interessante notare che Van Gogh, negli ultimi anni della sua vita, era profondamente convinto di dipingere in un modo nuovo, derivante da una sua diversa visione del mondo, che altri pittori suoi contemporanei non avevano”. Così convinto da riuscire a tener testa, a proposito della validità del suo lavoro e della bellezza dei suoi quadri, a un prete che doveva giudicare se dimetterlo dall’ospedale psichiatrico. Il dialogo fra i due è uno dei punti più intensi ed esplicativi del film.

L’attore Willem Dafoe, che interpreta in modo molto convincente il personaggio di Van Gogh, ha detto: “Schnabel mi ha insegnato a dipingere e dipingendo ho cambiato punto di vista. Questa è stata la chiave che mi ha permesso davvero di capire Vincent Van Gogh”. Ed ecco il compito non facile che si era dato il vero Vincent: “Riuscire a creare qualcosa di imperfetto, di anomalo, qualcosa che alteri e ricrei la realtà in modo tale che ciò che ne risulta siano anche delle bugie, se si vuole, ma delle bugie più vere della verità letterale”.