“Non so dirvi quando potremo rivederci in futuro, amici miei, ma vi prometto che stasera daremo davvero tutto quello che abbiamo”.

Il concerto lucchese di Leonard Cohen, martedì 9 luglio, è cominciato così, con un breve annuncio già sentito in altre date dell’estenuante tour (ventotto concerti) che sta portando il Grande Canadese in giro per l’Europa. Non è ufficialmente l’ultima tournée, ma è lo stesso Cohen a far capire che potrebbe esserlo, che a 79 anni diventa difficile programmare altri viaggi intercontinentali. Eppure, tre ore dopo, a vederlo saltellare come un Roberto Benigni d’annata verso il retropalco, dopo sette bis e due ore e mezzo di esibizione (più mezz’ora di pausa), si direbbe che questo signore della musica sia eterno.

Come al solito, per chiunque, raccogliere le emozioni dopo un suo live diventa difficile, e ammetto, per rinforzare il concetto, che parlando di lui la mia già labile obiettività va a farsi benedire. Infatti all’inizio mi bastano le prime note di Dance me to the end of love per dimenticarmi del disappunto dato dal fatto che dalla mia posizione (prima fila, biglietto da 90 euro) un cameraman mi impallava completamente la visuale sul cantante, costringendomi a cambiare posto. Dicevo, me ne dimentico subito, e comincio a cantare anch’io (silenziosamente, salvo un’eccezione) i pezzi che vengono infilati uno dopo l’altro dalla band.

Il concerto è simile agli altri due visti nel 2008 e nel 2010: un ottimo spettacolo, ben costruito, curato in ogni dettaglio, con grandi professionisti al lavoro, dove poco o niente è lasciato al caso e alla spontaneità del momento. Insomma, se preferite crisi isteriche o piagnistei di cantautori/trici che scompaiono, svengono in scena, o litigano con gli spettatori, cercate altrove. Il Cohen che si ferma, va nel camerino, si fa la barba convinto di non essere in una buona serata, e poi torna fuori e fa spellare le mani al pubblico, è quello di quarant’anni fa, più giovane e irrequieto, splendidamente ritratto dal film Bird on a wire di Tony Palmer.

Ma torniamo al tema. Il concerto del Summer Festival si è sviluppato in tre parti. La prima, con qualche classico e una robusta rappresentanza di Old Ideas, il disco del 2012, la seconda con alcuni dei brani più amati da un pubblico in estasi, e la terza con un paio di rientri sul palco e sette bis. Cohen è apparso in splendida forma: l’ultima volta lo avevo visto a Firenze nel 2010, e a guardarlo, i tre anni passati si vedono, ma ascoltandolo si direbbe che la “golden voice” citata in Tower of song, stranamente esclusa dalla scaletta stavolta, è sempre più dorata. Tra The future e Amen, tra Come Healing e Who by fire, tra Darkness e Lover lover lover si è sentito un crescendo nel vigore e nella forza interpretativa del canadese errante.

Il momento migliore però è arrivato soprattutto dopo la pausa, con un trittico acustico meraviglioso, Suzanne, Chelsea Hotel #2 e Sisters of mercy da brividi, con un Cohen quasi solitario con la sua chitarra a sottolineare perfettamente ogni parola, ogni sillaba. Magia pura. Lo stesso, poco dopo, per The partisan, mentre Alexandra Leaving lasciata a Sharon Robinson, con tutta l’ammirazione che posso avere per la collaboratrice e corista, è stata un po’ lunga ed eccessivamente acclamata. Non poteva mancare l’autocompiacimento ironico di I’m your man, come pure la più reinterpretata delle canzoni di Cohen, Hallelujah. Ma verso la fine, arrivano altri sprazzi di miracolo: Famous Blue raincoat, in cui la platea riesce a stento a resistere dal cantare tutto il testo, come invece aveva fatto poco prima in So Long, Marianne, durante la quale non ho retto neppure io, deliziando i vicini di sedia con la mia versione personale. Dopo la preghiera di If it be your will, come da prassi degli ultimi anni “donata” alle Webb Sisters (le altre due coriste), Leonard si concede l’ultimo gioco di parole, terminando con Closing Time e ribadendo il concetto con I tried to leave you.

Ogni volta che se ne va, e che i roadies cominciano a smontare gli strumenti sul palco, viene il dubbio che sia l’ultima volta al cospetto di questo grande autore della musica popolare del Novecento. Sperando, come in precedenza, di essere smentiti.

Setlist
Dance me to the end of love
The future
Bird on a wire
Everybody knows
Who by fire
The Darkness
Amen
Come Healing
Lover lover lover

Intervallo

Suzanne
Chelsea Hotel #2
Sisters of mercy
Hearth with no companion
The Partisan
Alexandra Leaving
(Sharon Robinson)
I'm your man
Hallelujah
Take this waltz
(Encore)
So long, Marianne
Going home
First we take Manhattan
Famous blue raincoat
If it be your will
(Webb Sisters)
Closing time
I tried to leave you