È una delicatezza che rapisce quella di True Meanings, quattordicesimo album di Paul Weller (1958) che ne tiene alto il titolo di “Changingman” (epiteto ricavato dall’omonima canzone apparsa nel best seller Stanley Road del 1995), perfetto per descrivere un animo musicale eclettico perennemente alla ricerca di nuove forme di espressione.

Il cambiare rotta quando le acque sono sicure è un’inclinazione che il musicista inglese ha da subito manifestato, fin dai tempi punk-rock dei Jam, e che è rimasta sempre una sorta di segno distintivo del “Modfather” (altro soprannome impossibile da scindere da Weller per via del look curato, oltre che delle influenze musicali). La stessa sorte difatti è capitata ai suoi Style Council, fautori di un ammaliante nonché originale acid jazz, e, in termini di varietà, non ha risparmiato nemmeno la carriera solista, iniziata nell’ormai lontano 1991.

Weller esplora continuamente mondi, forgia stili e si dirige altrove quando questi diventano “moda” o rischiano di inquadrarlo in maniera troppo precisa agli occhi dei fan: rimangono come minimo comune denominatore la classe della scrittura, la cura per ogni singolo aspetto e l’inconfondibile timbro vocale, per il resto non è mai dato sapere dove si dirigerà, britpop, rock elettrico, acustico, indie, soul, psichedelia, pop-jazz etc., ogni destinazione è per lui raggiungibile. Ecco dunque che oggi True Meanings, dopo due lavori che, seppure in modo diverso, sposavano energia e ritmo nelle sonorità fondendo rock, elettronica e black music, presenta un clima inaspettato, notturno, pastorale, poetico e toccante.

È un folk che accorpa elementi di songwriting fra loro distanti in una dimensione inedita. Ci sono sicuramente i Beatles, Nick Drake, Neil Young, Tim Hardin ma anche Burt Bacharach, il tutto filtrato attraverso una personalità forte, capace di mettere la parola conclusiva senza che i richiami prendano il sopravvento sull’identità dei pezzi. Chitarre acustiche, archi, fiati, tastiere vintage, interventi di timbri “caratterizzanti” e pochissima batteria sono gli indumenti riposti nel bagaglio “leggero” di questo viaggio fatto di ispirazione, intimità ed eleganza. La splendida apertura di The Soul Searchers è già un biglietto da visita eloquente del contesto sonoro, l’ambiente nel quale prendere comodamente posto per godersi l’ascolto.

Paul Weller si è guardato dentro e attorno per scrivere questo disco, e non senza sofferenza: il tema della perdita e della fragilità umana aleggia sulle tracce, eppure prevale un senso di accettazione, di serenità, di sguardo filosofico sul vivere, talmente genuino da risultare contagioso e quindi terapeutico. Tante e diverse le trame che il tessuto acustico sfoggia, adattandosi all’indole (e all’anima) di ciascuna canzone e vestendola di tutto punto per la migliore resa. Glide ha la dolcezza e il gusto del McCartney più folk e bucolico, con o senza Beatles, Mayfly e Movin On il “blue-eyed soul” in stile Weller che commuove, Gravity il romanticismo e una vena quasi di mediterraneità, Old Castles un seducente incedere ternario da valzer, What Would He Say? il cuore “sixties” nel tema affidato al flicorno soprano che richiama inequivocabilmente Bacharach, così come Books occhieggia all’India di George Harrison e dei Beatles e Wishing Well al country rock di Neil Young.

Non si perdano poi l’introspezione del singolo Aspects, la dedica esplicita di Bowie (che è anche il nome di uno dei suoi figli), il sentimento blues di Come Along, il “sinfonismo” di May Love Travel With You e la chiusa “lirica” di White Horses. In poche parole, fondamentale da cima a fondo: una nuova pietra miliare della discografia solista.