“In Italia la situazione è ferma da anni: abbiamo Report e Doc 3, che va in onda in tarda serata offrendo una decina di inchieste l’anno, diverse delle quali acquistate all’estero. Pochissimo lo spazio per le produzioni dal basso, indipendenti. La vera novità è l’esercito di giornalisti freelance emerso negli ultimi anni: si è organizzato per autoprodurre video-inchieste di valore, provando a coinvolgere nella produzione i grandi media. Sta accadendo in tutto il mondo e si collega al fatto che il giornalismo investigativo sta diventando sempre più collaborativo”. Sintetizza così la situazione Matteo Scanni, direttore della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano, dove insegna, autore lui stesso di libri inchiesta e video reportage su mafia, tematiche sociali, politica e conflitti internazionali. È inoltre presidente dell’Associazione DIG, che nel 2014 ha dato vita a una piattaforma per sostenere e valorizzare i giornalisti di video reportage e investigazione.

Sono nati così un festival e un premio annuali, occasione d’incontro internazionale che contempla anche la formazione. Si svolge a Riccione e ospita giurie composte sempre da grandi nomi: quest’anno la presidente è la celebre giornalista e scrittrice canadese Naomi Klein, affiancata da prestigiosi colleghi che arrivano da otto Paesi diversi a conferma della vocazione internazionale del festival e del concorso, che quest’anno ha raccolto 250 candidature da oltre venti Paesi, inclusi Colombia, Bangladesh, Siria, Zambia. Tra i temi maggiormente affrontati il clima, lo sfruttamento delle risorse naturali, i drammi dei minori e le ingiustizie socio-economiche. L’intera manifestazione è finanziata con danaro pubblico (Regione e Comune), servizi scambiati con il territorio e molto, molto volontariato “inclusi i membri della giuria con i quali c’è ormai un patto di fiducia” precisa Scanni aggiungendo che in questo quadro “riusciamo a dare premi/sovvenzioni per 30 mila euro” un piccolo miracolo.

E DIG, che quest’anno si svolge dal 30 maggio al 1° giugno, nei suoi primi cinque anni ha tenuto a battesimo 1500 doc d’inchiesta e registrato oltre 50 mila presenze. “Il pubblico è raddoppiato richiamando anche i non addetti ai lavori e tanti giovani – aggiunge Scanni - Quando siamo nati volevamo dare una casa a quell’universo di liberi professionisti bravissimi, che hanno bei progetti ma faticano a trovare collegamenti fra loro e con i potenziali produttori/distributori in Italia e in Europa. Una delle espressioni più riuscite è il nostro Pitch, contributo economico allo sviluppo di idee e supporto per trovare commission editor. In cinque anni molti progetti sono diventati inchieste importanti come, per esempio, quella sui cinesi in Italia trasmessa da Arté, e una su Scientology trasmessa da Reporter”.

Come vengono raccolti i progetti?

C’è un bando pubblico ed è diffuso a livello globale. Ci si iscrive, DIG raccoglie le richieste e poi gli interessati vengono a presentare i progetti alla giuria super qualificata che fa la selezione.

DIG è anche formazione

Durante il festival offriamo workshop gratuiti accreditati dall’Ordine nazionale dei giornalisti. I docenti, tutti di alto livello, sono sia nazionali sia stranieri. E poi proponiamo anche il DIG Pro, un percorso legato agli aspetti più tecnici del giornalismo investigativo con docenti quasi tutti internazionali.

Dal suo osservatorio può dirci com’è la situazione del giornalismo d’inchiesta oltralpe?

Se in Italia mancano spazi in tv per servizi approfonditi, s’investe poco in tempo e denaro e i grandi editori non se ne occupano, all’estero ci sono situazioni variegate. Negli Stati Uniti in questo momento c’è una stretta abbastanza forte con la quale i giornalisti più impegnati fanno i conti. Si pensi al caso di The Intercept: una delle loro fonti è stata arrestata di nuovo negli scorsi giorni. In Francia dal punto di vista produttivo la situazione è migliore che in Italia perché esistono agenzie strutturate come Premieres Lignes e Capa in grado di realizzare inchieste approfondite disponendo di 200-400 mila euro di investimento. Esiste anche il CNC, un fondo strutturale pubblico, che integra i budget per le produzioni. In Gran Bretagna ci sono le grandi reti tv, come il Guardian, che sono ormai media company e investono.

Come è cambiato il modo di fare giornalismo d’inchiesta negli ultimi cinque anni?

Accennavo prima che il giornalista investigativo sta diventando sempre più collaborativo. Pensiamo ai Panama Papers: documenti riservati messi a disposizione da un insider che li consegna ai giornalisti di Süddeutsche Zeitung che, compresa l’entità della questione, chiedono l’appoggio del Consorzio Internazionale di giornalismo investigativo di New York che a sua volta coinvolge altri 400 giornalisti nel mondo, si creano strumenti specifici per analizzare una mole di documenti (fisicamente una stanza di 20 mq x 20 piena fino al soffitto) altrimenti impossibili da incrociare. Esempio riuscito di ciclopica indagine internazionale che ha portato alla luce paradisi fiscali, interessi di politici, si è perfino dimesso il primo ministro islandese. Anche a livelli non da premio Pulitzer, sono fioriti consorzi che riuniscono giornalisti investigativi dell’Europa e del mondo, che scambiano informazioni e usano una metodologia comune.

Ostacoli?

Politica e poteri forti non sono amici dell’inchiesta giornalistica, in nessuna parte del mondo, anche per questo serve avere le spalle molto grandi per affrontare le situazioni. L’inchiesta inoltre deve portare alla luce qualcosa che non si sapeva e per farlo servono fonti particolari: senza un insider il giornalismo investigativo non si fa. Poi serve una base documentale solida. Per questo sono poche e costose le inchieste. E poi coinvolgono non solo giornalisti, si pensi ancora ai Panama Papers. Per questa ragione sono più diffusi i reportage rispetto alle inchieste, anche se sono complessi da realizzare. Ricordo Surrounded by Isis un report gioiello realizzato per Premieres Lignes dal giornalista di guerra Xavier Muntz che si faceva paracadutare in una vallata del Kurdistan iracheno dove Isis avanzava per conquistare il territorio e i Kurdi combattevano. Un modo estremo per raccontare una situazione simbolo di resistenza, ma invisibile.

Ma gli spettatori ci sono? E che cosa si aspettano?

Nel Nord Europa la tv pubblica programma le inchieste in prime time, non a mezzanotte come da noi. Il pubblico italiano non si aspetta niente perché si è abituato a non vedere nulla. Poi però i successi di Andrea Purgatori che ha realizzato da solo l’investigazione su Ustica o, fuori dai circuiti della tv classica e tra le testate minori, il riuscito esempio di Fanpage dimostrano che quando la qualità c’è gli spettatori ci sono.

A proposito di relazione giornalista-spettatore: a DIG quest’anno il tema è Personal Matters, ovvero la fine dell’obiettività giornalistica? E quindi come fidarsi di chi ci racconta la realtà se è “personalizzata”?

Già da dieci anni la missione del giornalismo si è svincolata dal “mito” di stampo anglosassone del racconto oggettivo dei fatti. Oggi non basta più indagare i fatti, serve interpretarli dichiarandolo pubblicamente e difendendo la forza delle proprie idee nel processo di ricerca della verità. L’interpretazione è data dal vissuto, dalla competenza, dalla passione che sono valori aggiunti alla costruzione della notizia. Siccome è impossibile raccontare la realtà prescindendo dalla propria personalità, dichiararlo onestamente rafforza la fiducia, anche perché i giornalisti si attengono comunque ai principi deontologici di base.

Previsioni per l’Italia?

Retrospettivamente cerco una linea storica per interpretare il presente e sono pessimista. Strutturalmente i nuovi vertici Rai non hanno previsto nulla in questa direzione e si accorciano tutti i servizi sulle testate private. Speriamo nell’esercito dei freelance che avanza, inesorabile.