In corso, la quinta edizione del Flowers Festival. Organizzata da Hiroshima mon amour e Cooperativa Culturale Biancaneve, ricongiunge oltre quaranta artisti di fama internazionale. A unirli, per tre settimane di appuntamenti e concerti, non è un genere musicale specifico, bensì il più alto, universale, messaggio che la musica può infondere e diffondere: il sogno, realizzabile (e da realizzare presto) di un mondo migliore.

Building a new society: costruire una nuova società. Tutti, insieme. Anche grazie e con la musica, partendo proprio da un luogo altamente simbolico: il Cortile della Lavanderia del più grande e celebre manicomio italiano, quello di Collegno. A differenza delle due ultime edizioni, dedicate a Franco Basaglia, lo psichiatra italiano a cui si deve la legge tuttora all’avanguardia nel Mondo per il superamento delle strutture psichiatriche; quest’anno il tema cambia volutamente. “Building a new society” rappresenta l’ordine-bisogno impellente di vederci più chiaro e di cambiare il cambiabile.

Ne parliamo con Fabrizio Gargarone, direttore artistico del Festival, cultore della musica “che salva la vita” e fa bene al mondo. Sostenitore di una società più giusta che, dice, bisogna costruire ora. “Questo è il momento giusto, siamo obbligati a farlo”. Questa, la quinta edizione del Festival, è un pretesto per ricordare a tutti che la musica, oltre ad essere divertimento, è colonna portante di una struttura indispensabile che può rendere la società, una società felice: l’armonia, la giustizia, e poi la leggerezza (che non è frivolezza) e l’allegria dei fiori. La scelta, non casuale, di “proporre artisti che si stanno interrogando nella propria opera su come costruire una nuova società, su quali valori farlo e su quali strade percorrere in futuro, rispetto a quelle già percorse in passato” ci ricorda che tutti, oltre loro (gli artisti), potenzialmente calziamo in questa definizione. Semplici, eppur molte volte dimenticati, sono in fondo gli atti di responsabile umanità richiesti: armiamoci di bellezza, di curiosità e di civiltà. Abbracciamo l’arte, per abbracciarci noi. Non è un’Odissea (come quella che ospiterà il Festival, lo spettacolo di Giuseppe Cederna) o lo è solo metaforicamente. È un vivere al ridosso per vivere al centro. Sono giorni comuni, aperti a tutti, ma per nulla scontati: dove dimentichiamo (possiamo, per quel poco, dimenticare) le strade dissestate, le buche e un’Italia che non va come vorremmo.

Viene definito da molti “tra le principali arterie che portano la linfa musicale internazionale a Torino”. Dai primi anni ’90, nei quali, racconta, era “un ragazzino che andava al Parco della Pellerina ad ascoltare i musicisti che stavano emergendo” alla direzione artistica di Pellerossa, Traffic, Extra Festival e, adesso, il Flowers, quale evoluzione ha subito il suo percorso artistico?

Che bella definizione! Quasi esagerata. Il mio arrivo nel mondo della musica, devo dire, è avvenuto in modo abbastanza casuale. Ero specializzato in critica pittorica, mi interessavo di arte contemporanea. E poi, il caso della vita: apre a Torino Hiroshima mon amour. Inizio a frequentarlo. Poi, con il tempo, ne divento direttore artistico. Faccio anche l’architetto, sono iscritto all’Albo, esercito. Per una serie di coincidenze giuste, l’arte, da passione quale era, diventa il mio mestiere. Posso e voglio dirlo: l’arte mi ha salvato la vita.

Si è occupato anche di “festival più piccoli e sconosciuti”. Quanto conta la “ricerca” in ambienti più piccoli per la realizzazione di grandi realtà, come, ad esempio, lo è un progetto come il Flowers Festival?

Conta moltissimo. Il segreto è stare sempre con le orecchie e con la mente aperta. Andare a vedere le “cose nuove”, essere curiosi. La volontà di essere sempre avanti, sul pezzo: ecco, la volontà e la curiosità sono la base di tutto. Poniamo che, per un fatto anagrafico, non potresti più fare questo lavoro. Come lo risolvi? Devi comunicare con chi ascolta l’hip hop. E come lo fai? Lo fai vivendo nel mondo. E mantenendoti sempre giovane. Come si dice? “Forever young!”

Com’è nata l’idea del Festival Flowers? Perché questo nome?

È stata anche qui una casualità: avevo la possibilità di portare in concerto Patti Smith, in un centro commerciale. Ma se le avessi detto: “Devi suonare in un centro commerciale”… Ho preso il sindaco di Collegno e gli ho detto: “E se ti portassi Patti?” Mi rispose: “Mi piacerebbe, ma solo per due concerti…” Esitava. Ci ho pensato. “Senti, ma se facciamo un festival?”. È andata così. Lo spazio che ospita il Flowers è immenso: il Parco della Certosa è grande quanto la Città del Vaticano, 400.000 mq. Allora, per compensare, cercavo una parola, così, che fosse un po’ leggera, un po’ allegra, carina, positiva e che sintetizzasse quello che era al tempo un luogo di dolore, un luogo diverso, un manicomio e che, fortunatamente, oggi non lo è più.

Il tema di questo anno è Building a new society: che significato attribuisce al concetto di “nuova società”? È davvero questo il momento storico giusto per poter “ricostruire”?

Sì siamo arrivati a un punto: il punto. Non solo è il momento storico giusto per poter ricostruire, ma è il momento giusto per doverlo fare. Siamo obbligati a farlo. È un mondo friabile – non liquido (Zygmunt Bauman, ndr). Il condominio disfunzionale, l’ascensore rotto, le strade dissestate, le buche, l’Italia: tutti avvertono questo senso di incertezza, di paura. Forse stiamo andando da qualche parte, ma siamo sicuri che questa parte funziona? È ora di provare a costruire una nuova società. Avverto un senso di ricerca molto forte. Cerchiamo qualcosa di diverso, un senso di comunità. Vorremmo provare a parlare. Ezio Bosso, figura ispiratrice del tema di questa edizione, il 26 giugno 2018, folgorò anche il Parlamento Europeo. “L’unico modo per salvare l’Unione è l’Arte”, sostiene. Cosa significa essere europeo? Significa essere tedesco quando ascolti Beethoven, francese quando ascolti Debussy. “Non c’è confine, la musica non è solo un linguaggio ma una trascendenza, che è ciò che ci porta oltre”. In fondo, siamo tutti cittadini della stessa Europa e c’è ben poco di non condivisibile. Direi anzi che la nostra nazionalità può dipendere anche dai gusti che ci appartengono, dalla musica che ascoltiamo, da dove ci poniamo, in un determinato momento, per guardare il mondo. Così, l’arte unisce e ci rende un po’ tedeschi, un po’ francesi, un po’ quello che non siamo dalla nascita. E che invece però, proprio grazie all’arte, possiamo anche essere.

La musica può, oppure no, “ricostruire”? O meglio, come lei stesso suggeriva in un’altra intervista, come può “contribuire al dibattito sulle trasformazioni sociali”?

Quando vedo degli artisti apparentemente marginali, scollegati, mi rendo conto che sono proprio loro a far crescere la musica in modo molto importante. In particolare, ricordo un’interprete femminile che, fatto un ragionamento sul proprio corpo, non in maniera noiosa ma in maniera contemporanea, mi segnò profondamente. Il mondo può cambiare? Assolutamente sì. Attraverso la musica è possibile far passare dei concetti, dei sensi. Basta vedere la Baez (Joan Baez, ndr) che oltre ad essere una cantautrice, è un’attivista politica. Ha provato a cambiare il mondo per tutta la vita ed è ora impegnata nei movimenti femministi americani. Lei, in realtà, è una messicana di ottima famiglia (il padre, Albert Vinicio Baez, era un fisico importante) ma ha vissuto, in prima persona, il tema dell’immigrato sgradito. C’è una certa circolarità delle tematiche.

Da un DJ set dei The Bloody Beetroots, protagonisti indiscussi della scena dance-punk a Yann Tiersen: il salto è notevole. È raro trovare un Festival così variegato. Perché questa scelta?

È riconducibile al filone di questa nuova società. Tutti (gli ospiti, ndr) hanno tratti comuni, malgrado si identifichino per caratterizzazioni individuali apparentemente molto diverse. Sono, in un modo o nell’altro, tutti artisti che hanno scelto di vivere in isolamento. È come se si facessero domande che ci facciamo anche noi: “Forse ci manca una comunità?” Motta, ad esempio, tratta di quello sbando italiano di cui parlavamo. C’mon tigre, ha scritto una canzone di nome Building a society, da cui viene il nome dell’edizione di quest’anno, terminologia che ho rubato proprio a loro. La serata dei The Bloody Beetroots invece, sarà una serata di divertimento.

A proposito della scelta di vivere in isolamento: leggendo le storie degli artisti proposti, è curioso, ritorna spesso il tema dell’isolamento, o meglio, della scelta di vivere in piccole realtà, in luoghi di dimensioni ridotte, dove la vita sembrerebbe essere ancora autentica. Tra i tanti: Yann Tiersen, che ha scelto con la sua compagna di vivere nella piccola isola bretone di Ouessant in una comunità di ottocento persone, o ancora Jack Savoretti, che vive nell’Oxfordshire, o Maurizio Carucci, il leader degli Ex-Otago, che con la sua compagna, vive nella Cascina Barban, in un piccolo comune della Val Borbera e alterna la sua professione di musicista con quella di contadino. Proprio Maurizio Carucci, per altro, utilizza un termine molto forte, la definisce: “militanza tranquilla”. Crede che si debba partire da noi stessi per la costruzione di una nuova società più giusta?

Perfetto! Giungiamo al nocciolo della questione. Questa “militanza tranquilla” è meravigliosa. Ezio Bosso la definisce “la gentilezza militante”. Sai, tutta quella serie di “buongiorno”, “buonasera” e di gesti inconsueti, come quello di accomodare una persona. Alla fine, se ci pensiamo, è il “nulla” a generare il Bene. La nostra storia dell’arte è piena di filantropi. Sono gli stessi che permettono a noi di godere dell’Arte. Ed è da qui che bisogna ripartire.

Il Festival ospita quest’anno tre gruppi torinesi: Fran e i Pensieri Molesti, Diecicento35 e Twee. Quanto è attiva la scena torinese, o più in generale piemontese, in questo sogno di “grande cambiamento”?

Molto! Tutti e tre questi gruppi saranno presenti al Gay Pride in Piazza Vittorio. Sono artisti che incarnano bene la parte più progressista del Paese. A differenza del governo… Basti pensare al Festival del cinema LGBT. Alla FieraLibro, anch’essa caratterizzate dal mondo LGBT. O alla casa editrice che ha pubblicato Salvini, che poi è stata esclusa dal Salone del Libro. Questi artisti rappresentano questa storia qui: antifascista. Il primo movimento gay è nato a Torino ed è un vanto per me. Torino è, sì, al centro della volontà nazionale di un grande cambiamento.

Nelle edizioni precedenti, Flowers non era solo musica ma anche eventi speciali e performance. Cosa ci aspetta in questa edizione? C’è spazio anche per una programmazione extra-concerti?

L’unica cosa diversa su cui, per altro, ancora sto lavorando, è una rappresentazione dell’Odissea in chiave moderna di Giuseppe Cederna, accompagnata da due orchestre, quella del compositore Willy Merz e la Cooperativa Sociale CLGEnsemble, sul Fiume Po. Lui (Giuseppe Cederna, ndr) interpreta Ulisse. E poi c’è Nausicaa. Ragioniamo sull’integrazione, sull’immigrazione. Ma stiamo cambiando il luogo, si può dire che tutto è in continua trasformazione.

L’Italia, diceva in un’intervista “è ancora alla ricerca di una sua formula specifica di festival dopo i fallimenti dell’importazione di modelli americani o nordeuropei”. Parlava inoltre di “situazione incerta” riguardo al futuro del Festival. Tutto però sembra oggi, fuorché in bilico. Con artisti di calibro internazionale come Ezio Bosso & European Philarmonic Orchestra, Joan Baez, Yann Tiersen, Manzanera e Juan De Marcos dei Buena Vista Social Club, il Flowers Festival sembra stia raggiungendo grandi traguardi, forse quest’anno più che mai. La situazione sta cambiando? L’Italia ha trovato la sua “formula specifica”?

I Festival che stanno andando meglio sono quelli in cui il valore aggiunto della storia dei posti è importante e raccontabile. Un Festival, poniamo al Nord Italia, buttato in un parcheggio, non interessa. Festival invece apparentemente minori come quello di Sarzana, muovono di per sé, sono spirituali, li vedo in grande crescita. La via battuta che premia è esattamente questa: arte, bellezza dei luoghi, cultura. Valorizzare un sistema meraviglioso che c’è già.

Aggiungeva che “questo gioco funziona se anche gli artisti decidono in prima persona di sostenerlo. E quel tipo di artista oggi lo conti sulle dita di una mano”. La programmazione di quest’anno è incredibilmente ricca, gli artisti a sostenerne la causa sembrano essere tutto tranne che pochi. Direbbe la stessa cosa oggi?

Sì, funziona quando l’artista viene coinvolto. Soprattutto per l’artista mainstream. Chi è più attento alle cose? Vinicio (Capossela, ndr), ad esempio, a cui devi per forza raccontare tutto. È un artista che vuole capire dov’è, dove suona, perché. Anche Joan Baez è così. Non si limitano a suonare in un luogo perché gli è stato detto di farlo, ma scavano nella sua storia, ricercano fotografie, aneddoti, chiedono. Si differenziano da altri che hanno il cosiddetto “approccio di mercato”: quelli che scendono dalla macchina e vai. Suonano, poi vanno via. Molto più facile, comunque, è parlare di cultura con artisti teatrali, che non con artisti musicali, specie se di grande successo.

Flowers Festival è giunta alla quinta edizione. Una bella soddisfazione. Come si è evoluto il progetto nel corso degli anni?

Questo è un anno zero. L’anno scorso coincideva con l’anno della legge Basaglia. Chiusero nel ’78 il manicomio e vennero liberati 200.000 bambini ospitati negli asili psichiatrici. Abbiamo dedicato l’edizione alla commemorazione di questa legge. Quest’anno è il 41mo, un po’ più difficile ragionare… È un anno di passaggio. Dove mi porterà il Flowers nei prossimi anni? Non lo so. Staremo a vedere!