Se questo 2019 non coincidesse con il centenario della nascita dell’insigne coreografo statunitense Merce Cunningham, (nato il 16 aprile 1919 a Centralia nello Stato di Washington) e pure con il decennale della sua scomparsa (26 luglio 2009, a New York) la presentazione a Bolzano Danza/Tanz Bozen di Beach Birds e di Biped, sarebbe stata “solo” una ripresa di due coreografie, anche se molto speciali, a cura di Robert Swinson. Invece l’Hommage à Merce Cunningham del CNDC (Centro Nazionale di Danza Contemporanea) di Angers diretto dal 2013 proprio da Swinston, uno dei danzatori storici e più volte assistente del grande coreografo scomparso, ha reso ancor più iridata la “medaglia d’oro” conquistata quest’anno dal festival bolzanino, considerato dal Ministero alla Cultura, “miglior festival di danza dell’anno”. Per di più l’Omaggio a Cunningham si è stagliato come unicum, tra i festival estivi, e unicum in generale, a causa della preminenza che teatri, circuiti, e istituzioni varie hanno voluto accordare – da oltre un anno – al decennale della scomparsa di Pina Bausch, artista, occorre riconoscerlo, molto più amata, vista, e forse compresa dal grande pubblico italiano, rispetto al coreografo americano.

A fronte di vistose e più che opportune celebrazioni negli Stati Uniti, l’Italia, unica, forse, tra i Paesi europei, avrebbe quasi ignorato Cunningham. Grazie, dunque a questo Festival, di cui parleremo, per averne tenuta viva la memoria e la sua “diversità”. Ciò che infatti distingue Merce Cunningham, grande danzatore (ma qui scriviamo della sua più che importante rivoluzione coreografica) dalla maggior parte dei maestri della danza del Novecento è il fatto che la sua opera si è sempre voluta sottrarre a giudizi di valore puramente estetici. Di fronte alla sistematica e monumentale ricerca condotta da questo coreografo statunitense in oltre settant’anni d’ininterrotta attività (più di 250 coreografie), sembra quasi riduttivo soffermarsi su questa o quell’opera del suo ampio repertorio; esso ci appare come un work-in-progress dove non si ravvisano, o non si dovrebbero ravvisare, spettacoli “finiti”, bensì tappe di un viaggio. Un viaggio, però, destinato a non esaurirsi fintantoché l’ormai novantenne coreografo ha avuto forza ed energia sufficienti - e l’ha avute: nell’anno della sua scomparsa ha creato l’imprevedibile e dinamicissima Nearly Ninety con la sua Merce Cunningham Dance Company - per continuare ad interrogarsi sulla natura della danza, a suo dire, misteriosamente inafferrabile e d’origine divina e per questo così attraente, fintantoché ha continuato a porsi domande sul movimento nello spazio e nel tempo, sulla coreografia, sull’assemblaggio di danze dentro e fuori la scena teatrale, sull’uso della tecnologia, sul rapporto con le altre arti.

Molti di questi interrogativi, suscitati dallo stretto contatto con un milieu artistico e intellettuale non certo e non solo coreutico (a cominciare dai dadaisti americani e da Marcel Duchamp), hanno già trovato risposte cui è possibile attribuire una valenza storica. La separazione della danza dalla sua sorella (o stampella, soleva dire Rudolf Laban, il teorico della danza libera) più prossima, la musica; l’introduzione delle Chance Operations, la messa in scena degli Happenings e degli Events sono scoperte messe a punto negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Un’epoca in cui tutte le arti hanno provato a ridisegnare se stesse, in un Paese, l’America (in specie la New York del dopoguerra, tanto simile alla Parigi del primo Novecento), diventato ricettacolo degli influssi delle avanguardie europee in fuga dal nazismo e dalla guerra, e capace di amplificare e proteggere le nuove avanguardie artistiche in un inedito rapporto medianico con la società. Tuttavia il rigore, la coerenza, soprattutto l’oggettività delle risposte date da Cunningham a problemi tuttora di vitale importanza per l’arte del movimento, quali il rapporto con la musica, la consistenza coreografica, la partecipazione dei ballerini a una nuova “poetica della simultaneità”, risultano imprescindibili per chiunque si accinga a scoprire le fondamenta della danza contemporanea.

Per meglio comprendere lo specifico che sostanzia tale poetica concernente il modo di concepire il tempo e lo spazio nella creazione artistica, si può ricorrere a un breve excursus storico. Dal Rinascimento in poi, sia la grammatica sia la retorica hanno contribuito a sopprimere le soluzioni di continuità all’interno delle varie parti di uno stesso discorso d’arte; i pittori hanno creduto di poter radunare gli oggetti da loro raffigurati consegnando alla prospettiva il compito di assicurarne la coesione nello spazio grazie a un prolungamento immaginario delle linee effettivamente disegnate. In musica, l’armonizzazione delle melodie puntava espressamente all’omogeneizzazione delle parti successive a quelle a loro precedenti. Il criterio estetico dell’“unità dei diversi”, ereditato dai Greci, sembrò soddisfatto nella supremazia della transizione: secondo la quale in tutte le esperienze estetiche ogni parte procede dalla precedente; testimonianze ne furono la progressione logica adottata nelle tragedie, ma anche nei balletti, o la simmetria delle masse nell’architettura classica. La maggiore ricompensa per l’artista consisteva nella regolarità con la quale conduceva per mano lo spettatore dall’inizio alla fine dell’opera.

Il XX secolo si aprì sostituendo alla transizione la giustapposizione come modo unificante dell’opera. Ma anche quest’ultimo criterio compositivo - pensiamo al Cubismo, o alla poesia inconsapevole o onirica dei Surrealisti - implica una successione determinata dall’ordine stesso (per quanto fortuito o nato da un conflitto) dei materiali visivi o verbali messi in campo che fungono ancora da guida alla percezione. Al contrario la simultaneità, come la si ravvisa nel teatro di danza e musicale di Cunningham e del suo compagno d’arte e di vita John Cage (Los Angeles, 1912- New York 1992), è piuttosto costruita da istanti che travolgono la nostra percezione abituale del tempo e dello spazio. L’ideale “simultaneista” non guarda più alla sintesi hegeliana di causa ed effetto (così importante nella danza moderna) bensì alla “sincronicità” di Carl G. Jung come viene esposta nella prefazione al libro cinese I King che sta alla base dei metodi aleatori adottati dai due artisti americani per instaurare modalità di significazione lontane, appunto, dalla logica della successione causale. Infatti: “Quando la progressione casuale è sospesa, tutto diviene centrale. E tutto si intensifica in un presente continuo che abbraccia tutto e per sempre”. Così scrive Jung nella sua prefazione a I King o Libro dei mutamenti.

Nella sottostante affermazione di Cunningham, troppe volte elusa da critici ed esegeti della sua opera: “Il mio lavoro non ha per tema la danza (It’s not about dance), ma è danza (It’s dance)”, il coreografo suggerisce senza equivoci la volontà di esplorare, passo a passo con Cage, che lo precedette in analoghe esplorazioni in campo musicale, le sconfinate possibilità non-intenzionali dell’arte del movimento. Egli volle creare danze purificate da ogni significato accessorio, persino dal concetto stesso di significato ed infine, o soprattutto, affrancate dalle prospettive necessariamente ristrette dell’ego, offrendo allo spettatore una percezione sincronica del tempo e dello spazio proprio secondo i dettati della “sincronicità” junghiana descritta sopra. Una logica alla fine trascendente: ambiziosamente rivolta a “imitare la natura nei suoi processi creativi” come tante volte hanno asserito sia Cage che Cunningham, e in cui nel divenire “simultaneista” preferenze e antipatie del volere si attenuano immediatamente per il fatto stesso che solo “la volontà presuppone la successione.”

In molti scritti di e su Cunningham, si svelano gli strumenti di cui l’artista si dotò nella prassi del suo lavoro e quali vie percorse per farci vedere non più le idee, i sentimenti, le preferenze, le ideologie, bensì la sola danza. Leggendo questi documenti con l’attenzione che meritano, non si potrà altro che convenire, inoltre, su di un aspetto sotteso a tutte le sperimentazioni presentate da Cunningham e riguardante la complessa identità del corpo danzante: un corpo nient’affatto scontato come, del resto, il lavoro a cui il ballerino si accinge, ben lungi dall’essere riducibile alla riproposta di schemi tecnici o poetici prestabiliti. Nietzsche subodorava in ogni pensiero e in ogni sentimento “un potente maestro, uno sconosciuto che indica la via,” un sé che abita il tuo corpo, perché “è il tuo corpo” (Zarathustra). A questa intuizione nietzschiana che ben si adatta a stigmatizzare il lavoro del pioniere della danza libera (Wigman, Dalcroze) fa eco l’inconfutabile constatazione che il corpo, ai giorni nostri, deve essere invece messo in una condizione prossima al vuoto. Per quanto fortificato e reso duttile da mille tecniche e nelle più diverse discipline formative, il corpo riesce a far nascere da sé qualcosa di nuovo, se posto in una sorta d’assenza, di silenzio da cui tutto può nascere.

Cunningham ha contribuito molto a questa ricerca “nel silenzio”, a questa sperimentazione sul corpo che non si lascia più guidare dall’ispirazione - considerata da Cage, soprattutto, un anacronistico retaggio romantico - bensì dall’oblio di sé che può corrispondere alla ricerca dell’“altro in sé” o al “sé dell’altro”. Infatti, il corpo dell’altro nei suoi sostegni, nei suoi contatti, come nella sua osservazione tattile e visiva, non si rivela immagine, figura anatomica precisa, ma piuttosto sensazione, intensità in una dimensione che non è più solo visiva quanto soprattutto temporale. Il tempo, suggerisce Cunningham, spinge il corpo a “divenire-corpo”, dunque a “divenire-idea” del corpo.

Alla base delle invenzioni e della post-modernità nella danza - e in particolare di quella zona cuscinetto chiamata New Dance, abitata da Cunningham che sta a metà strada tra Modern e Post-Modern - vi è il vuoto di un corpo che ha rinunciato al suo potere, alla sua centralità drammatica, alla sua etica individualistica e ideologica. Vi è un corpo che ha detronizzato la testa per privilegiare il torso (e Torso è il titolo di una celebre coreografia di Cunningham del 1976), rendendo quasi superflue le zone semiche (il volto) per dare maggiore autonomia alle membra e realizzare una molteplicità di intrecci in cui ogni corpo è davvero un “frammento in sé”. L’orientarsi verso il “frammento in sé” (che anche Nietzsche intitolò Fragment an sich, gratificandolo però di un da capo illimitato) ha permesso alla danza di affrancarsi dal suo asservimento a dei contenuti esteriori e, per esempio a Merce Cunningham, di liberarsi dalla tutela di Martha Graham, coreografa totalizzante per eccellenza, per la quale danzò dal 1938 al 1942, per proiettarsi verso il formalismo musicale di John Cage che peraltro prescriverà poi il ricorso all’informale. La dimensione temporale - al contrario di ciò che Rudolf Laban aveva, ad esempio, professato con l’idea dei corpi che scolpiscono lo spazio aprendo in esso dei volumi - diviene in Cunningham puro ritmo, identificandosi con la definizione cageana di struttura.

Non si tratta più, come nell’Espressionismo storico o nella danza drammatica della Graham, di rivelare le contraddizioni della “materia”, di evidenziarne i conflitti, ma piuttosto di eliminare il più possibile gli “affetti” del corpo, poiché essi oppongono la loro dinamica spasmodica alla leggibilità del tempo: il materialismo di Cunningham, di matrice eraclitea (Eraclito, il filosofo del continuo divenire), concepisce la materia-tempo come scorrimento, la danza come acqua, e “il corpo del danzatore non si bagna mai due volte nello stesso fiume” (Eraclito). Il tempo sfugge al suo potere di trattenerlo.

L’importanza di Merce Cunningham e del compositore John Cage nella storia della danza sta tutta in quest’inedita rivelazione del vuoto: il vuoto che noi siamo, e che essi hanno risvegliato, nell’infinito e nell’indefinito delle nostre metamorfosi. Le metamorfosi, direbbe il filosofo Gilles Deleuze, ben lungi dal mascherare il vuoto lo rivelano colmandolo. Come se il vuoto, per essere se stesso e realizzare la sua essenza dovesse svuotarsi del suo proprio nulla e fare il pieno d’essere. Cunningham è, dunque, il coreografo del vuoto/pieno ed è tale nel continuo divenire, è l’artefice pragmatico e d’orientamento Zen, lo scienziato/poeta della fluidità (non come tecnica di movimento ma come Weltanschauung) e del tempo che fugge non accontentandosi, però, di fuggire, poiché nel suo bagaglio di coreografie, e negli Events, in particolare, vi è una “testualità” nomade, come in James Joyce, che ritorna alla memoria suscitando però un’altra idea della storia, soprattutto della storia dei corpi.

In entrambi i pezzi mirabilmente presentati dal CNDC d’Angers a Bolzano Danza/Tanz Bozen guizza questa memoria/storia dei corpi “nomadi”. Beach Birds, per undici danzatori, appartiene ai cosiddetti Studi di natura di Cunningham, amante degli animali, acuto osservatore del loro movimento e loro originalissimo disegnatore/pittore. Debuttò a Zurigo nel 1991, in occasione di un festival dedicato a James Joyce e a John Cage. Le calzamaglie bianche dei ballerini, con spalle e braccia nere, sembrano alludere al colore di certi volatili e le mani nascoste nel nero paiono lunghe punte d’ali. Si comincia da un’immobilità subito interrotta da una ballerina che inizia poco alla volta a oscillare; mano a mano la danza monta in un silenzioso tripudio di passi a due, di cerchi sinuosi dove si nota persino una testa maschile che si posa delicatamente su di una spalla femminile, come capita di vedere nei documentari sugli uccelli innamorati. Beach Birds, pluripremiato anche nella versione filmica a cura di Charles Atlas, trasuda sensualità, affettività, persino gusto decorativo. Ma il suo umore è nostalgico come le gocce sonore, rade e onomatopeiche di Four 3, la composizione di Cage che si ascolta in sottofondo.

L’incredibile successo che accolse Biped, seconda coreografia proposta da Bolzano Danza/Tanz-Bozen, al suo debutto, nel 1999, e per molti anni successivi, si deve alla sua unicità e perfezione di coreografia con elementi virtuali che ancora non pare avere eguali. All’età di 80 anni, e per celebrare l’arrivo del terzo millennio, il coreografo da sempre tecnologico, si affiancò a due ingegneri informatici. Con una tecnica detta “motion capture”, Paul Kaiser e Shelley Eshkar aspirarono il movimento (ma non le forme fisiche) di tre danzatori dell’allora Merce Cunningham Dance Company per poi trasformarlo in immagini digitali. In uno spazio teatrale chiuso da invisibili schermi sul fondale e in proscenio, mentre a uno o a due alla volta entrano i danzatori, compaiono bande azzurre di altezze differenti e mobili. Queste bande diventeranno dei puntini raggruppati nello spazio, dei piccoli parallelepipedi di mille colori, dispersi come tanti pezzi da collage infantile. Diventeranno soprattutto dei danzatori virtuali formato scheletro-gigante dalle fasce muscolari ancora multicolori che non si contentano di fluttuare nell’aria, anzi. In questo spazio notturno dai bagliori blu e iridescenti come le calzemaglia a mezza coscia dei danzatori, essi penetrano per “giocare” con i danzatori vivi, volando sulle loro teste, toccando le loro estremità.

Immaginate un funambulo che regge sul capo un altro funambulo gigantesco, col suo asse d’equilibrio, e avrete disegnato nella mente uno dei momenti più imprevedibili della misteriosa coreografia. Non ne descriviamo tutta la danza, ma possiamo assicurare che contiene almeno cinque straordinari assoli, tra i più lirici ed intensi che Cunningham abbia mai creato, con uno straordinario effetto che sopraggiunge a metà dei 45 minuti della pièce, e corrisponde alla rapida vestizione dei ballerini che d’improvviso si ritrovano addosso delle giacche color perla, morbide e setose. Ed ecco che la tenuta “classica” delle spalle, e tutta la postura eretta dei corpi perde la sua sostenuta aristocraticità e la danza acquista un tono ancor più contemporaneo e “dubbioso”, pur nell’eleganza delle forme che si sposano a quelle virtuali. Biped, tuttavia, non sarebbe un’opera così seducente se ad accompagnarne il ritmo imprevedibile e vitale non vi fosse la musica del compositore inglese Gavin Bryars, con strumenti dal vivo, rafforzati da equivalenti elettronici. Anche questo sviluppo sonoro che sembra voler accarezzare e corteggiare la danza, con modalità inedite rispetto ai tanti musicisti che oltre a Cage hanno collaborato con il coreografo, acuisce la “testualità nomade” di Biped. Omaggio all’Homo Sapiens, Biped sembra continuare a riassumere nel più puro formalismo le grandi tappe della danza del ’900 (dal Bauhaus di Oskar Schlemmer a velati cenni post-espressionisti). Un’intramontabile meraviglia, un capolavoro.