Quello di Antonello e Renzo Cresti è un dissidio, uno studio disincantato e crudamente oggettivo sulle sorti della musica oggi. Quello di Antonello e Renzo Cresti non è un elogio del sapere, delle leggi dell’armonia, del mercato globale. Non ne è nemmeno una critica. È un’interpretazione, la loro, delle logiche fallimentari di un sapere incompleto, di un’armonia detta “corretta” e di un mercato che ha reso la musica, un prodotto dissacrante, di “probabilità uniforme”: uniformato e uniformante. Pubblicato da NovaEuropa Edizioni e curato da Stefano Sisa, La scomparsa della musica. Musicologia col martello si interfaccia con un cavillo imperscrutabile: come può, il minare l’espressione, permettere all’espressione di migliorare se stessa? E quando la voce non è più un sordo, irrequieto rumore dello spirito che preme per uscire, cosa effettivamente è? Esiste un termine di paragone, un termometro del successo, una moneta giusta? Esiste un codice di valori che non sia il sentire, il sussulto della pelle, il più o meno fitto crampo improvviso allo stomaco, il lacrimare degli occhi - quando parliamo di Arte? Può esistere ancora finanziamento consistente (non solo economico) per la musica ben fatta, irriverente, non affiliata sempre e per forza alle leggi imposte dal consumismo?

È una forma musicale di Transumanesimo futuro – minare l’espressione – se togliamo anche questa forma d’individualità creativa, stiamo andando in una direzione spaventosa.

Per definire la situazione verso la quale ci direzioniamo, quando parliamo di musica, gli autori, omonimi ma non parenti, usano un termine molto forte: “Transumanesimo”. Il Transumanesimo, composto da “trans”, attraverso e “umanesimo”, ovvero il superamento dello stesso, sta ad indicare una condizione entro la quale vigono forme, declinazioni e attitudini che non più rispondono ai codici detti “umani” (perché intrinsechi alla natura umana) ma che ne fanno volentieri a meno. Dove ci porta il fare a meno della nostra umanità? Ad una forma di “Transumanesimo futuro”, appunto, che come diretta conseguenza ha, tra le tante, un’espressione dell’Io personale minata alla radice. L’individualità, ci dicono Antonello e Renzo Cresti, è necessaria per parlare di Arte. Togliere “questa forma d’individualità creativa” equivale al togliere il diverso dal comune, il fuori dal dentro. Equivale alla riapparizione compulsiva dei termini “normale”, “ammesso”, “concepito”, “concesso”. Equivale, appunto, alla morte dell’individualità, tramite l’ammissione (automaticamente colpevole) di non averne. Possiamo davvero dirigerci verso l’ammissione, comune, di non essere “Io unico”? Questo, forse, è ciò che ci detta, da ogni dove, il mondo attuale.

La Musica però è un antidoto, o almeno dovrebbe: “È per questo importante considerare lo spazio della Musica un “centro” umano multidimensionale.” Ed è “proprio in questi spazi che il significato profondo della Musica ritrova una sua definizione”.

Forse, infatti, ciò che il mondo attuale ignora, è che l’essere umano implica forzatamente il disporre di umanità. È un pacchetto tutto compreso commissionato alla nascita, ahimè, ed è molto più difficile di quanto non si creda, tagliarne via un pezzo. Amputare la propria individualità creativa significa amputare la propria umanità. E non è “andare oltre”, è retrocedere. Un virus, una qualità, un gioco d’azzardo: essere umani non è solo vivere o dichiararsi tale, non è una dotazione scomponibile, è soffrire e sentire. E la voce non sa essere solo un frutto, perché prima deve essere un soggetto. Quando ai giovani si impone un modello utilitaristico della voce, indirettamente lo si impone anche agli adulti: si modificano le leggi universali del “gradito”, e quindi anche del “possibile”. Togliere la voce e dar retta alle regole equivale a rimuovere il contenuto, lasciando però intatto il contenitore. Cos’è il Talent? Un contenitore, appunto.

Proprio in questo senso, Antonello Cresti sostiene che, fortunatamente, “tra i giovani non esiste solo il culto della voce uniformata del Talent”. Il Talent uniforma e rende la stessa uniformizzazione un culto, una qualità da perseguire. Inevitabile se si aspira all’accettazione, l’uniformità è, suo malgrado, ciò che meno la favorisce. Eppure, anche di questo, il mondo attuale non sembra esser a conoscenza. E così la musica segue regole tracciate e tracciabili, pseudo-garanzie di successo e pseudo-diktat di strategie performanti e ad alta garanzia di successo, impossibili da negoziare, secondo le quali il fallimento può esser più o meno evitato o garantito.

Qual è il ruolo della musica nel mondo contemporaneo? Sembra che il medium musicale oggi sia onnipresente, eppure mai come oggi, in tempi di industrializzazione progressiva e privatizzazione completa del settore, la musica ha perso le sue fondamentali funzioni di collante sociale, narrazione di gruppo, epica collettiva. La musica non sembra più una sostanza viva, non è più sé stessa. Preda delle spinte uniformanti del mercato e delle norme egemoni della società liberale, la musica è scomparsa per quello che era ed è sempre stata. È in questo contesto che urge una sociologia della musica, nuova e indocile, per ragionare radicalmente sul problema musicale che, in fondo, rappresenta la questione antropologica contemporanea.

Al ruolo della musica oggi, risponde che “bene o male che sia fatta, è troppo legata alla forma e troppo poco legata ai rimandi che la musica ci lancia a livello di suggestioni”. La musica si è, quindi, slegata, disancorata dal suo scopo primario? Ciò che questa pubblicazione solleva, è proprio questo (non inguaribile) dilemma. Ancorata ad una docilità che non gli appartiene, trascolorata, la musica necessita di un intervento d’urgenza. Rompere “il guinzaglio dei costumi”, come scriveva Pino Bertelli, perché “al fondo bestiale dell’entusiasmo c’è l’imbecillità”. Atrofizzare il tema del mito a discapito dell’oggetto finale, cioè a discapito della musica stessa, è il tema centrale di questo studio. I Cresti denunciano la superficialità abietta e folcloristica con la quale da musica “vera” si è passati alla musica “mercatale”, mutamento che sosteniamo con la foga di sempre, benché questo, drammaticamente, significhi, in realtà, sostenerne la morte. Se del lezzo ottenuto nell’asservire i padroni, gli artisti non possono più far a meno, quantomeno lo può la musica. Ed è dalla musica stessa che bisogna ripartire, eliminando perciò il “ciò che permette”, rifugiandosi e dando credito, forse, a ciò che non permette così facilmente.

La Musica necessita di interazione attiva e per questo di un rapporto privilegiato con l’ascoltatore, perché se noi “spalmiamo” l’esperienza dell’ascolto in tutti gli ambiti, il senso dell’esperienza viene meno, diventando allora semplice brusio di sottofondo. Brusio di sottofondo che tanto fa paura alla società perché esemplificazione della morte e del silenzio, cosa che spaventano molto nel nostro mondo Occidentale.

La musica non salva, aiuta a salvarci. La musica non è osannare l’identità di chi la pratica, celebrare il corpo dal quale promana. La musica è e deve osannare solo se stessa, essere espressione priva di preconcetti e di mistificazioni, colei che permette la fuga. La fuga dalla società liberale? Anche. O dalla stessa vita, dalla nostra finitezza, dalle cose e dagli uomini che creano dispiacere. Ella non può essere dispiaciuta. Non può essere al centro di una ferita, trasmutata in ciò che non è: un prodotto comodo che lecca i piedi a chi la finanzia. La musica si auto-finanzia, perché semplicemente è. E se non c’è, benché si finanzi, banalmente non c’è. La scomparsa della musica. Musicologia col martello è un’opera indispensabile, un manuale di ri-educazione all’ascolto, uno studio ai margini che poco c’entra con l’accondiscendenza e con il compiacimento. È anzi fonte di approvvigionamento per chi, come loro, gli autori, preme per la realizzazione di una resistenza al mercato, al superfluo, alla banalizzazione del fortuito, del talento, del genio creativo. Si oppone alla musica “ascoltata ovunque”, sostiene la musica “ascoltata”. Perché, come asserisce Cresti, se è “dappertutto”, la musica, “non è da nessuna parte”.