Dopo gli studi di ginnastica artistica e di danza classica, nel 2014 Stefania Tansini si diploma come danzatrice presso la Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi, sotto la direzione didattica di Marinella Guatterini. Di fondamentale importanza sono gli incontri con Enzo Cosimi, Dominique Dupuy, Cesc Gelabert, Jonah Bokaer, Maria Consagra.

Nel 2014, prende parte allo spettacolo di Dario Fo e Franca Rame Storia di Q e inizia a lavorare come danzatrice in tutte le produzioni di Simona Bertozzi. Nel 2016, collabora con Luca Veggetti per lo spettacolo Non essere, una tentazione e Quarto personaggio, e con Ariella Vidach per Temporaneo Tempobeat.

Si confronta con alcune esperienze di video-danza (Interferenze, cortometraggio, L'isola sbagliata, film, Piano Social, video musicale del musicista Francesco Orio e nel 2017 viene chiamata da Romeo Castellucci per prendere parte alla sua nuova produzione “Democracy in America e nel 2018 al Flauto Magico, opera lirica con la regia di Castellucci e le coreografie di Cindy Van Acker.

Dal 2019, è coreografa associata all’Associazione Nexus. A Kilowatt Festival 2019 ha debuttato la sua creazione coreografica La grazia del terribile. Ad oggi sta lavorando al *Punti di ristoro”, progetto del 2020.

Ho 28 anni, vivo in un paese di campagna nella provincia milanese e trasformo la mia sofferenza esistenziale in creazione artistica.

Mi piace fare delle lunghe passeggiate, cucinare, mangiare sano e bere del buon vino. Ho una passione per le piante, perché sanno stare al loro posto e relazionarsi al mondo circostante. Non lo trovo scontato e per questo le curo e le osservo molto.

Traggo molta ispirazione dai libri legati alla filosofia o alla fisica. Da quei libri che insegnano la vita e che uniscono la vita con l’arte e la storia. Mi aprono degli squarci interiori, delle scosse interne ed emotive che poi posso trasportare nella danza, in un gesto o in una dinamica.

Faccio meditazione, perché mi aiuta a trovare e rinnovare il mio equilibrio mentale e fisico, che fatica sempre a venire.

In generale, cerco di prendermi cura di tutto quello che faccio. Per ora il mio obbiettivo è tentare di fare quello che sto facendo, ovvero ritagliarmi tempi e spazi per continuare la mia ricerca sul corpo e trovare luoghi dove poter mostrare i miei progetti.

In sintesi, mi vedo come uno sguardo di una persona che pensa con il corpo, che cerca con il corpo. Se no, muore.

Da dove scaturisce la passione per la danza, come se n'è resa conto?

Fin da piccola ho sempre avuto una propensione per le discipline fisiche. Mia nonna era nella nazionale italiana di ginnastica artistica, quindi i miei genitori mi iscrissero ad un corso di ginnastica. Ero in terza elementare, e mi ricordo benissimo quando la mia migliore amica mi invitò al suo saggio di danza classica. Mi ricordo l’effetto della musica classica e i tutù bianchi. Mi dissi: “Sì. Questo”. Lì ho sentito che era quello che volevo fare. Che c’era qualcosa che mi apparteneva, più della ginnastica. Così mi iscrissi al corso di danza.

Mi piaceva moltissimo, ma rimaneva sempre un’attività secondaria al mio percorso di studi. Iniziai il liceo scientifico e poi l’università al Politecnico di Milano. La mia disciplina scolastica mi assorbiva, gli esami dell’università totalizzavano le mie giornate e la danza era sempre meno presente. Dopo un lungo periodo di preparazione di esami universitari, mi rimisi alla sbarra, ma non avevo più i muscoli pronti che mi permettevano di muovermi come io desideravo. Il mio corpo non rispondeva più come quando era allenato. Piansi. In quel momento capii che stavo perdendo qualcosa di necessario e fondamentale per me, per la mia vita. Lasciai l’università e mi iscrissi alla Paolo Grassi di Milano. E da lì, giorno dopo giorno, iniziai a fare quello che faccio tutt’ora, a tempo pieno.

La sua carriera è fitta di esperienze poliedriche e di incontri importanti. Ce ne può parlare?

Sono attratta e interessata da tutto quello che è legato al corpo, che dal corpo passa e si trasmette. Non penso ci sia un'unica possibilità di relazionarsi con il corpo e, ugualmente, penso che l’incontro e l’unione di esperienze, persone, situazioni differenti, anche apparentemente distanti e in contrasto, sia più arricchente. Questa modalità di approccio alle cose mi ha portato a passare dalla ginnastica alla danza, dagli spettacoli di strada ai teatri di lirica.

E tutte le persone che ho incontrato nelle diverse situazioni ed esperienze, dal professore delle medie che nel pomeriggio teneva i corsi di teatro a registi e coreografi più conosciuti, hanno contribuito ad alimentare la fiamma che sento. Da Romeo Castellucci, che mi ha trasmesso il coraggio che ci vuole per poter dire quello che si vuol dire e nel modo in cui lo si vuol dire, a Simona Bertozzi, danzatrice e coreografa senza la quale non avrei avuto l’occasione di poter approfondire il lavoro sul corpo. Da Cindy Van Acker, che mi ha trasmesso la freschezza e la brillantezza che sta dietro ad un lavoro sul corpo profondo e serio, a Roberta Mosca, che mi ha dato la fiducia di credere che in ogni momento e in ogni luogo si può fare ricerca, feel and connecting, sempre. E molti altri. Ma non sottovaluto il valore anche delle persone che ho incontrato e incontro fuori dal mio ambito professionale.

Come si verifica il passaggio dalla danza classica al suo personale modello di danza che parte da un’accurata ricerca sul corpo-mente e sui movimenti che ne sono l’espressione?

La danza classica è un metodo, come molti altri, per aprire il corpo nello spazio. Mi ha sempre interessato perché affronta il movimento in modo lucido, geometrico, anatomico. E questo secondo me è molto utile come studio, per conoscere meglio come funziona l’anatomia, la dinamica, la coordinazione del corpo.

Lo stesso rigore e gli stessi principi possono però prendere altre strade. Si possono creare nuove forme, con un rigore pari. Nella mia visione, la danza classica è un’acquisizione di una tecnica da utilizzare per poter creare qualcos’altro. Uno strumento che ti dà la possibilità di andare da qualche altra parte, oltre il corpo. La tecnica è molto utile, perché pulisce la scrittura del corpo nello spazio, elimina i movimenti non essenziali, che sporcherebbero il dialogo con lo spettatore. E la pratica quotidiana sta proprio nell’allenare il corpo ad essere aperto, chiaro, limpido, per far sì che la danza possa emergere più facilmente e solo successivamente sporcata, in quanto azione artigianale, atto umano, gesto umano.

"Una mente umana potrà immaginare in maniera distinta e simultanea tanti oggetti quante immagini possono formarsi simultaneamente nel suo corpo", scrive Baruch Spinoza. È su questo principio che si basa la mia ricerca: diverso è l’immaginario e lo stato mentale del danzatore, diversa sarà la forma del corpo.

Il danzatore apre, attraverso la forma del corpo, il suo mondo interno, il suo immaginario. Lo mostra e lo concede alla visione. E attraverso questa forma aperta, fatta non solo di tensioni, lo spettatore può entrare e partecipare a suo modo.

Cercare di mettere in forma un pensiero sul movimento significa, quindi, tentare di avvicinare mondi interni e intimi, sia di chi guarda e sia di chi agisce. Significa tentare di creare un dialogo diretto tra due intimità. Questa condivisione d’esperienza è resa possibile a partire da una percezione tecnica del corpo performante, da un utilizzo del corpo, preciso, dettagliato, acuto. Così, a partire da questo tipo di percezione e da un approccio anatomico, è possibile rendere un viaggio intimo un’esperienza condivisibile, e non unicamente soggettiva o auto-referenziale. Così, il corpo del danzatore, inevitabilmente unico nella sua espressività, nel suo personale e soggettivo approccio al movimento, può essere una porta d’accesso di un discorso che lo trascende.

Ogni volta che parlo di ‘corpo’, intendo corpo- mente, o meglio corpo pensante. L’indagine sta proprio nella connessione, nella possibilità di dialogo tra corpo, pensiero, azione. E di come questa connessione possa cambiare.

Mi interessa una modalità di stato e di relazione del corpo in scena che non lo chiude in una progettualità a priori, ma lo libera, lo mette in una condizione di seguire quello che lo spazio presente gli offre. Lo spazio, ha sempre molto potenziale, dà sempre molte possibilità di movimento al corpo.

I movimenti così dinoccolati/liberi e bloccati/impacciati allo stesso tempo, oltre che raccontare la musica, sembrano raccontare il corpo vivente… il corpo del desiderio e il corpo della proibizione.

L’erotismo, il rapporto con la morte, l’anima… tutti i temi antropologici possono passare, e passano, se uno si ferma a riflettere sul corpo. Ma nella danza non c’è riflessione, c’è un atto, un’azione, un gesto, un ‘qualcosa’ che può fare rientrare lati più o meno oscuri e nascosti. Il corpo è complesso, è pieno di apparenti contraddizioni e di opposti. E anche lavorare con questo materiale rovente è complesso. Dal corpo passa davvero molto. Forse tutta la nostra percezione e relazione con il mondo e con le persone.

Una gamba può essere michelangiolesca, pornografica, angelica, fanciullesca… sta nel come viene utilizzata, dal contesto nella quale viene inserita, dal gesto che la precede o la segue. È tutto relativo. Ma il punto non è il proprio corpo, impacciato o no, libero o costretto. Il proprio corpo è il punto di partenza fondamentale, ma l’obiettivo è un altro. L’obbiettivo è il corpo dell’altro. Proibito o desiderato.

Il corpo si porta dietro sempre una grande dose di mistero. (Da dove si origina il movimento? Da dove parte l’energia?). Questo lato nascosto, questo lato anche oscuro che il corpo porta è anche quello che a me interessa, che mi elettrizza. È quel non detto, non conosciuto che mi stimola. Non c’è una soluzione al mistero del corpo, e questa non risposta, questo non sapere è quello che mi spinge a ricercare, ad aggirarmi sul limite di questo buco nero. Per me è molto eccitante.

Infine, per quanto riguarda la musica, la vivo e la intendo più come vibrazione sonora, come ritmo, quindi un tempo in uno spazio, con il quale dialogare e dal quale lasciarsi influenzare.

La sua danza pare interpretare la condizione umana: i suoi sogni, le sue nevrosi, i suoi ideali e le sue cadute. Movimenti frenetici, a volte liberatori, si alternano a movimenti a scatto, come se il corpo scappasse dal controllo della mente e perdesse fluidità, ma fosse impedito da una paralisi emotiva che si riverbera nel movimento.

Vivo il corpo come un contenitore di energia, un pacchetto che contiene un potenziale vitale che cerca di prendere forma attraverso il movimento. Il corpo è un passaggio di energia, da interno a esterno e viceversa. Si inscrive in un progetto più ampio, che lo ingloba, lo influenza. È sempre in balia di qualcosa che lo muove e con il quale cerca di entrare in dialogo, come può, in uno scambio reciproco di tensioni. Il corpo è lo scarto che si crea tra queste tensioni e forze. È questo che origina il movimento del corpo. Il lavoro del danzatore sta proprio nel far lavorare il corpo affinché questa forza, questo potenziale possa emergere ed essere visto. Parte da un lavoro tecnico, ma poi… cosa c’è di più umano del corpo? È vivo, è biologico, è espressivo, è emotivo. Anche nella creazione delle mie coreografie, preferisco lavorare a partire da riflessioni, spunti e pensieri legati all’umano.

L’arte della danza utilizza uno strumento che appartiene a tutti, ma ne modifica tempi e spazi. La mia visione etica del mondo, il modo in cui affronto la vita è lo stesso metodo e modo di ragionare che ho anche quando affronto il movimento. Così come sono immersa nei miei pensieri quando cammino per strada, così mi muovo in modo ‘affollato’ quando danzo. Cambia solo la forma, il contesto, ma la profondità e l’origine dell’azione danzata non è differente.

Come si sente quando balla? Quali sono i suoi movimenti emotivi corrispondenti?

Quando danzo, c’è uno stato emotivo, c’è l’emozione del momento che fa diventare tutto di una tinta indescrivibile e irriproducibile, ma è successiva a un approccio iniziale lucido e attento. Riesco a vivere intensamente la danza, anche a livello emotivo, se mantengo una visione presente e lucida di quello che sta accadendo, nel momento in cui danzo.

Questo doppio stato mi mette in una condizione fisica e mentale di imprevedibilità, di rischio, di non seguire delle scelte a priori. Questo accade anche quando la coreografia è memorizzata. Anzi, a maggior ragione, colgo ogni opportunità, in ogni momento, per rivivere quel momento.

Quando danzo, so dove sono, ma non so dove sto andando. E questo per me è emozionante. È vivo. È vero. Mi fa sentire viva, in qualsiasi movimento e momento, in ogni coreografia e spettacolo. Sto presente al presente, in un percorso energetico.

Quando mi metto in questo stato, succede qualcosa. O meglio, c’è la possibilità che qualcosa avvenga, succeda, accada. Il mio ruolo è di lasciare a chi guarda lo spazio della visione, di mettermi una condizione tale per cui il pubblico possa vedere e seguire quello che sta accadendo.

Ci può parlare del nuovo lavoro di cui è autrice, interprete e coreografa?

Il mio ultimo lavoro si intitola La grazia del terribile. Ha debuttato a luglio a Kilowatt Festival 2019.

È un percorso di trasformazione di un corpo che traccia il proprio viaggio attraverso pulsioni uguali e contrarie: da un lato scultura in movimento che intensifica e dilata la durata del gesto naturale creando infinite geometrie sulle quali però non si sofferma.
Il processo di ricerca che ha portato a questo solo è un percorso fatto di concentrazione continua e di attenzione al dettaglio, che tenta di mettere in forma le inquietudini e le contraddizioni che ci abitano, che tenta di coglierei quell’energia vitale che cerca di sopravvivere. Sono diverse tensioni che scivolano nello spazio, che spostano l’energia in un cambiamento di forme continue.

Che importanza ha rivestito Milano, con la sua cultura e le sue istituzioni, nella sua formazione?

Milano è una città poliedrica, offre molto dal punto di vista culturale, ma non solo. A Milano mi sono formata, sia come danzatrice che come persona. La formazione alla Paolo Grassi è stata un trampolino di lancio verso il mondo della danza. E anche tutti gli spettacoli che sono passati e passano da Milano, i festival di danza (MilanOltre, Exister, Fog, Danae, Da vicino nessuno è normale… e altri), gli spazi prova e di spettacolo (Olinda, Aiep di Ariella Vidach, Teatro le Moire, Triennale di Milano, Pim Off, Out Off, Sala Fontana, Franco Parenti, Elfo Puccini…) e le mostre, sono un ottimo stimolo per confrontarsi con la scena artistica, non solo italiana.

La sua esperienza alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi ...

Il corso ‘Danzatore’ della Civica Scuola Paolo Grassi, sotto la direzione di Marinella Guatterini, è un percorso di studi che mi ha dato la possibilità di approfondire la danza nei suoi molteplici aspetti. Da quello teorico, delle nozioni fondamentali di teoria ed estetica della danza, del teatro, della musica e delle arti visive, a quello pratico, come l’anatomia applicata alla danza. Mi ha dato la possibilità di esperire diverse tecniche (danza classica e danza contemporanea - Cunningham, Release, Contact Improvisation, Feldenkrais, studio del movimento e impostazione Laban, improvvisazione e composizione…) e di conoscere coreografi di diversa provenienza (Cesc Gelabert, Dominique Dupuy, Jonah Bokaer, Luca Veggetti, Michele Di Stefano, Enzo Cosimi…). Dal mio punto di vista, è una scuola che mi ha dato una visione aperta del mondo della danza e che mi ha permesso di comprendere cosa a me era più vicino, cosa mi apparteneva di più.

Fondamentali anche i progetti extra-corso, in collaborazione con gli altri corsi della scuola, ad esempio, con il corso di drammaturgia, e anche la possibilità dei progetti personali all’interno della propria classe in collaborazione con i propri compagni.

Quale spazio di Milano potrebbe essere il palcoscenico ideale per le sue evoluzioni?

Uno spazio non troppo grande, dove ci possa essere una comunicazione diretta ed empatica con il pubblico. Un luogo dove il pubblico è abbastanza vicino alla scena, partecipe di quello che accade. L’Out Off, il Pim Off, la Fabbrica del Vapore, la Triennale, la Sala Fontana o le sale più piccole dell’Elfo Puccini e del Franco Parenti, potrebbero essere un luogo ideale.

Anche luoghi non prettamente teatrali, come musei, piazze, luoghi pubblici, parchi… potrebbero essere un ottimo palcoscenico. Basta che mantengano una dimensione di intimità, di protezione, che permettano che qualcosa di fragile e sacro possa accadere.