Il numero nove. Il nono film di Tarantino. La prova del Nove. Per la prima volta non riuscita. Vediamo un ottimo regista. Lo stile e la tecnica filmica sono perfetti, ma manca per la prima volta l'anima, l'aura, la tensione, l'epos magico che fino ad ora hanno fatto di Quentin non solo un grande regista ma anche un originale e fascinoso autore. È come se il Mito dell'America avesse divorato il suo prediletto figlio, come Saturno.

Possibili spiegazioni: l'aver toccato un dramma vero, quello della strage di Sharon Tate, operazione eccessivamente rischiosa per non perdere grazia o consistenza, oppure anche l'ambientazione anni ‘60-‘70, tale da svuotare dall'interno il citazionismo e il metalinguaggio di cui Quentin appare fino ad ora maestro, abile artefice di opere con materiali di risulta, relitti obliati da lui trasfigurati, che qui diventano il normale pseudo realistico dell'ambientazione narrativa. Poco pulp e poco fiction! Appare un leggero e sottile climax ma prevedibile e scontato. E la dialettica recita recitante e recita di vita, western girato e western reale pur impeccabile, appare nel 2019 processo di costruzione abusato e logoro anche per un genio della reinvenzione come il nostro autore.

Quando ci si muove dentro i meccanismi che citi allora la poetica dell'effimero e dell'attimo diventa puro situazionismo ed estetismo senza ritmo e mordente, ma autoreferenziale. Non sentiamo dramma ma neppure commedia. Woody Allen sarebbe riuscito meglio in tale ibrido e poco sostenibile contesto, tramite la sua tradizionale metabolizzazione delle nevrosi e delle asimmetrie.

In questo film tutto sembra troppo simmetrico e preconfezionato: il cinema funziona, gli hippies sono cattivi e quando i due mondi si toccano gli attori vincono, come allenati dalla loro finzione ripetuta. Le belle scene in cui un muscoloso e imperturbabile Brad Pitt guida le automobili dal fascinoso design con la musica in sottofondo appaiono esprimere fin eccessivamente alla perfezione lo spirito della strada, il senso del viaggio che rappresentano l'anima del Mito americano. Ma tale perfetta resa svuota la presenza autoriale e differenziale di Tarantino e lo stesso senso narrativo dell'espressione. Immagine, e non icona, e neppure oggetto. Immagine muta e vuota, pura solitudine. Sembra un quadro di Hopper, e Brad quanto Di Caprio, lo stuntman e l'attore popolare, entrambi vivono una vita di solitudine e alcool saturata dal mondo video-televisivo-filmico che non riescono a dominare neppure producendolo, ma di cui sono poveri ostaggi.

Brad apre la dispensa e vedi lattine di cibo tipo la zuppa Campbell di Andy Warhol, e quasi non distingui tra cibo per cani e cibo umano. Un film maschile, dove la donna si manifesta saltuariamente e fugacemente come comparsa, come solo un'altra gradevole ma muta immagine, del tutto reificata, e i problemi e le dialettiche dei personaggi stentano a decollare nel processo di trasfigurazione quentiniano sia per il ritmo lento, l'approccio discorsivo e graduale, e l'assenza di incroci conflittuali. Anche l'evocazione del clima di fine anni ‘60 appare sfuggente, superficiale e vuota, senza un vero epos lirico o una deformazione critica.

La relazione coeva tra stile e situazione sociale di riferimento svuota ed evapora la maestria tecnica di Tarantino, quasi non riconoscibile. Nel complesso il tocco delicato di non rappresentare la strage vera, quella in cui tra le vittime si ebbe la bella attrice Sharon Tate, e di concludere invece con una strage in cui al contrario vi sono i maldestri hippies semisatanisti, lascia l'amaro in bocca per la ragione che sembra ridarci un'immagine di un Tarantino normalizzato a favore dello status quo capitalistico, dove l'essere alternativi va bene se vissuto dall'élite solo come una moda e una postura, mentre gli hippies vengono mostrati come straccioni da disprezzare.

Un Tarantino imborghesito e reazionario che conferma politicamente la demonizzazione del movimento hippies che invece, prima di quella strage, qui elusa, si diede sempre come movimento pacifico, e, forse, temibile proprio per questa sua indubbia natura. Il lieto fine semironico di Di Caprio che entra nel sancta sanctorum della villa della vicina di casa Sharon Tate, sembra celebrare l'ascesa professionale di un attore popolare ma mediocre, il passaggio dal mero ruolo ad una sorta di filmica aristocrazia elitaria e mondana. L'ironia di cosa accadrà in quella casa appare troppo sottile per non mostrarsi critica o acida. Il tutto smorza il fattore istintuale e istintivo proprio dell'aura tarantiniana.

Ci rimane, quindi, solo da apprezzare invece l'efficace rapporto complementare fra il Di Caprio affettivo e fragile con il Pitt inossidabile e zen. Il cow boy recitante insieme allo stunt man che si mostra vero cow boy nella vita, pur non recitando in modo riconoscibile. Tutto molto elegante ed estetico ma un po' poco come alchimia di base. La vera protagonista rimane la musica, resa come radio o vinili, che si irradia quasi sempre, quale rumore di fondo, labile metafora del mondo, per tutto il film, reggendone in parte il vuoto pneumatico. Tutte le scene sembrano set, ora abbandonati, ora velocemente usati. Ma non sentiamo quella magia del set che abbiamo, ad esempio, in Fellini.

Il dis-incanto domina, reso simbolicamente dal silenzioso e imperturbabile Pitt. Mentre in Grindhouse-Death Proof abbiamo il Tarantino puro, condensato, la sua quintessenza fatta di solo e puro stile dove l'imprevedibile e il non sense della violenza si trasfigurano quali occasioni per una musica di totale estetismo e volo simbolico, qui la magia non decolla per una sorta di saturazione dell'artificiale che assomiglia troppo al reale modello consumistico americano di massa. Non appare evoluzione o involuzione nei personaggi o nelle situazioni. Solo un semplice succedersi di ambientazioni situazionistiche chiuse in se stesse! I pochi momenti poetico-lirici, come la resa rallentata di Dreaming California mentre scende la sera e si accendono i milioni di neon di L.A., non bastano a riscattare un racconto scialbo e spento, prigioniero di se stesso e dei propri giochi di specchi.

A giocare troppo a lungo con gli specchi ci si acceca...! Un film incentrato tutto sul concetto di recita/recitazione non può ergersi a simbolo o metafora di alcunché, perdendo spessore narrativo e valore espressivo.