In un processo dove l’acqua è conduttrice e tu sei spettatore, dove la natura non insegna (ha già insegnato troppo) ma è (e sei tu a doverla ascoltare), non serve “fare” ma “lasciar fare”. Ed è ciò che sperimenta Max Casacci, abbandonando per un po’ lo strumento classico (strumento che lo accompagna, ad esempio, nel suo lavoro con i Subsonica). Lascia che siano, questa volta, i suoni naturali a “condurlo”, dando il via ad un nuovo progetto musicale chiamato Watermemories (Memoria, anzi Memorie dell’acqua), progetto presentato, per la prima volta, domenica 13 ottobre a Biella, in occasione dell’inaugurazione di Arte al centro, rassegna di Cittadellarte – Fondazione Pistoletto.

Un processo lungo ma soprattutto inaspettato, quello di Watermemories: da una gita con famiglia e amici, accompagnato dalla semplice curiosità di scoprire questo “luogo meraviglioso” lungo i corsi d’acqua nel Piemonte Settentrionale (più specificatamente nella città di Biella) ad un software chiamato Logic per comporre il tutto. Un software che è un costruttore per elaborare e poi finalizzare quello che, ci dice, deve avere una “risonanza emotiva”, giungere ad essere “un racconto”. Un software da usare con cautela, poiché “è troppo facile che poi diventi qualcos’altro” e perché la natura è “già perfetta di suo” e “ci ha insegnato tutto”.

L’acqua è una passeggiata, il suo registratore, chiamato idrofono, insieme a quello di Luca Saini (HatiSuara) gli unici strumenti di supporto. Oltre alla fotocamera, immancabile per l’amico Luca e ad una campana tibetana per proteggere il silenzio dal rumore del vento.

Un progetto che vede la luce dopo altri cospicui successi nel campo della sperimentazione musicale, l’ultimo di cui Glasstress, con Daniele Mana (Vaghe Stelle) che ha trasformato una fornace di vetro di Murano in un oggetto ritmico. La concettualità non viene sacrificata, mai, ma “è stato bello lasciarsi trasportare dal flusso”. Oltre alle registrazioni fatte a Biella, si sono rese fruibili alla realizzazione del lavoro anche le opere Barra d’aria di Giuseppe Penone e il sibilo di bollitori dall’opera d’arte di Pistoletto, Orchestra di stracci. L’una, posta all’interno di Cittadellarte e puntata verso il torrente che scorre a Biella, il Cervo, è generatrice di una nota bassa, simile al violoncello, che “può, forse, rappresentare l’anima delle acque”, l’altra è un gorgoglio di bollitori diventato strumento immaginario, esotico, sacro.

Quello che contraddistingue, comunque, il viaggio di Max Casacci è il suo movente: la scoperta che è e dev’essere fonte e risultato di se stessa. Quale finalità, quale esito deve avere l’arte, infatti, se non il fine ultimo della scoperta stessa? Cosa può essere, se non un “raccordo narrativo necessario per far esistere le cose”?

Da questo progetto e da questa ricerca che “tira fuori quanta più musicalità dalle cose che hai di fronte” ci dice, “si diventa dipendenti” perché “affrontando ciò che non conosci, è proprio lì che ti ritrovi a scoprire la tua natura musicale” ed “è una sensazione di smarrimento fondamentale.”

Dall’11 ottobre sarà disponibile sulle piattaforme digitali Watermemories. L’opera, detta sonora, trae ispirazione dalla memoria dell’acqua. Come si sviluppa?

Innanzitutto, l’opera Watermemories è divisa in due momenti. La prima traccia omonima, esclusivamente realizzata solo con le rocce ed il rumore dell’acqua, senza alcuno strumento, che rappresenta la sezione più ampia, ed il resto, il secondo momento, realizzato con i suoni prodotti da incredibili rocce calcaree, incontrate sulla scogliera a Kozo, sull’Isola sorellina di Malta, già conosciute nell’antichità e usate per rituali o perché no, anche dai primitivi come jubebox, per passatempo. (La seconda versione, quella del jubebox, mi sembra tra l’altro la più affascinante!) Queste rocce emettono dei rumori anche senza avere cavità apparenti, emettono, seppure in modo flebile, dei suoni. La cosa incredibile è che con questo mio amico, che oltre ad essere un sound healer (musica di guarigione) è un fotografo e un regista, ci siamo trovati su queste rocce a percuoterle davanti ad un obbiettivo senza finalità di alcun tipo, per puro piacere nostro, allineando i suoni e… Beh, abbiamo scoperto che queste rocce erano intonate tra di loro, formavano una sorta di orchestra naturale. Siccome la roccia calcarea, a detta del famoso Pintuccio Sciola (scultore e musicista che ha lavorato per numerosi anni sulle pietre e sui suoni), mantiene la memoria dell’acqua, questo mi è sembrato una bella appendice per un concept intitolato Watermemories.

Pochi giorni fa, esce in anteprima il video del secondo “movimento”: Ta’cenc. Mi incuriosisce il titolo. Ce lo può spiegare?

In lingua credo maltese Ta’Cenc è il nome di una località, di una scogliera di 150 metri a picco sul mare. Il titolo è un luogo, non ne abbiamo trovato un altro. È già così bello di suo! Pare tra l’altro che queste rocce furono già utilizzate un secolo prima di Stonehenge.

Com’è, tecnicamente e materialmente, “suonare le rocce”?

La cosa che mi piace di più in questa esperienza di estrapolare la musica dagli elementi naturali, dai rumori, dai suoni casuali è che il tuo approccio cambia necessariamente ogni volta. In quel caso, avevamo sentito parlare di questo luogo, abbiamo portato famiglie e bambini lasciandoli in spiaggia e ci siamo inerpicati. L’unica cosa che avevamo era un registratore digitale, immancabile per il mio amico Luca, una macchina fotografica e una campana tibetana, perché sapendo che la zona era molto ventilata, volevamo proteggere il registratore digitale dal rumore del vento. Abbiamo raccolto delle pietre per terra e abbiamo iniziato a suonare quelle. Non avevamo bacchette o oggetti di nessun tipo, abbiamo assecondato quello che avevamo intorno e abbiamo iniziato a farlo suonare. Il bello è proprio questo: tirar fuori quanta più musicalità dalle cose che hai di fronte.

Il brano è stato realizzato esclusivamente con il suono di rocce calcaree (impercettibilmente sonore) catturando suoni e rumori dell’acqua di Biella, dalle sorgenti ai torrenti passando per antichi luoghi sacri e più recenti santuari, fino ad arrivare alle pale che hanno trasformato la forza dell’acqua in energia per il lavoro. Ma non è questa la prima volta che si avvicina a questo tipo di sperimentazione col suono in ambito meditativo, onirico e spirituale. Come cambia il suo approccio ad esempio da Glasstrass (tecnica espressiva messa in pratica con Daniele Mana – Vaghe Stelle – che riceverà i complimenti di Pharell Williams) a Watermemories?

Questo è proprio il bello di quest’esperienza ed è forse il motivo per cui sento la necessità di intraprenderle, è che l’approccio varia necessariamente, mi spinge a sperimentarne sempre delle altre. Infatti, varia necessariamente a seconda dell’ambiente che ti trovi ad approcciare. Il primo approccio è un approccio concettuale (il rischio è quello di sentirsi sperduti) e il secondo è l’istinto esclusivamente musicale, che è per me il più importante, che non necessita di una formulazione teorica e che dev’essere fruibile da tutti. Affrontando ciò che non conosci, è proprio lì che ti ritrovi a scoprire la tua natura musicale, ed è una sensazione di smarrimento fondamentale per mettersi alla prova dal punto di vista musicale.

Domenica 13 ottobre, insieme ad HatiSuara (il progetto di Luca Saini e Mariacristina Busso) presenta l’intera opera sonora a Biella in occasione della ventunesima edizione della rassegna Arte al Centro di Cittadellarte – Fondazione Pistoletto. Che cosa si aspetta dal pubblico? Pensa che accoglierà questa sua nuova sperimentazione?

Innanzitutto quest’opera si completa nel luogo stesso, uno spazio ricavato all’interno del percorso della Cittadellarte, sede di Michelangelo Pistoletto che ha deciso di completare l’esperienza con una sua opera. È una fruizione di tipo multisensoriale, immersiva, un luogo estremamente rilassante anche perché tra l’altro che è un po’ il simbolo di questa trasformazione che lui ha voluto dare al percorso, l’importanza che ha avuto l’acqua per la storia di Biella e che non tutti conoscono. È sonoro ma non è solo quello, non è che vai a vedere un concerto, è un’opera che rimarrà stabile in questo spazio. Credo che le persone che mi conoscono attraverso altre esperienze musicali non proveranno nulla di respingente, anche perché io provo sempre a dare una forma musicale compiuta, la quale non richiede nessuno sforzo per entrare in contatto con l’ascoltatore, e non è quindi solo concettuale e teorica. È una cosa che ti deve catturare, lo applico sia quando scrivo le canzoni, sia quando lavoro alla produzione di musica, che può essere più o meno pop o underground: tutto deve avere una sua forma compiuta anche per chi non è alfabetizzato nello specifico. Certo è che, il fatto di sapere che una cosa che sembra quasi un brano orchestrale sia tutta registrata a partire da elementi come l’acqua, fa sì che ti coinvolge molto di più, ma non dev’essere un elemento senza il quale non puoi fruire dell’esperienza.

Ci vuole parlare di Biella?

Biella (e non tutti i biellesi lo sanno), a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento era città dell’acqua in Europa, arrivavano nobili e borghesi da tutte le parti per la famosa “acqua più leggera”. Era una vera e propria meta, c’era tutta un’attività legata alle terme e alle cure con l’acqua. Un’altra cosa che mi hanno raccontato è che il chimico Avogadro ha formulato le basi che hanno poi portato alla formula chimica H2O proprio durante un soggiorno a Biella. Inaspettatamente Biella diventa la città dell’acqua. È bello che Michelangelo (Pistoletto, ndr.) grazie alla Cittadellarte sveli, riporti alla luce proprio questa storia di Biella, che aiuti i biellesi a ripescare nella propria memoria (e questo, tra l’altro, si ricongiunge a Watermemories). Mi hanno poi raccontato che la qualità del tessile di Biella era molto legata alla qualità dell’acqua. Ultimo ma non meno importante, ho scoperto che lavare i piatti a Biella è davvero difficile!

Come ha conosciuto HatiSuara, il duo di sound healing nato a Bali nel 2013, fondato dal visual artist Luca Saini e Mariacristina Busso?

Con Luca Saini ci conosciamo da diverso tempo, essendo fotografo e regista, lo avevo addirittura coinvolto per un videoclip di un brano dei Subsonica chiamato Eden. Più recentemente, ha realizzato un videoclip per il progetto Demonology Hi-Fi, un progetto che condivido anche con il batterista dei Subsonica e di recente, solo di recente Luca ha intrapreso questo percorso con questi strumenti come, ad esempio, il gong, con i quali crea proprio delle session di massaggio acustico, utilizzando la musica come elemento di guarigione. È molto legato ad aspetti estremamente spirituali e, in realtà, la collaborazione con lui nasce per pura casualità. Ci troviamo insieme a Gozo, in vacanza con le nostre rispettive famiglie, lui viene scoprire da un’altra persona che ha interessi affini dell’esistenza di queste rocce e me ne parla. Facciamo un sopralluogo, capiamo che le rocce, colpite con altre rocce suonano. Registriamo un metronomo per fare in modo che, chi dei due incominci un movimento ritmico, dia uno stimolo all’altro, nell’ottica che siano sincronizzate tra di loro per essere poi sovrapposte. Ci facciamo due ore con il sole a picco, i sandali e il costume da bagno, senza mai pensare che ne avremmo ricavato un brano musicale né tantomeno un video! Quando arriviamo a casa, riallineando i file sonori sul mio software, scopriamo che le pietre sono intonate tra di loro. È una botta di stupore incredibile, addirittura le pietre creano degli accordi sovrapposte l’una sull’altra. Da questa semplice scampagnata capiamo di avere il materiale per strutturare qualcosa e decidiamo di farlo. Da cosa nasce cosa ma, diciamo che forse la casualità non esiste: Michelangelo chiede un brano sulla memoria dell’acqua, io nel frattempo mi sono un po’ più appassionato alla materia sonora legata alle pietre, approfondisco Pinuccio Sciola, questo scultore che ha lavorato tutta la sua vita sul suono delle pietre e… Si crea una quadratura perfetta. Michelangelo vede questo video e si appassiona, mi dice che lo vuole assolutamente negli spazi di Cittadellarte e allora, da lì, tutto trova una sua forma.

Inutile dirlo, immagino che la musica, o almeno la sperimentazione, sia per lei imprescindibile dall’elemento naturale. Lo è per l’arte, in generale? Per fare arte, ci si ispira ad una natura già perfetta, o è l’arte ad avvalorare e a rendere perfetta la natura?

L’arte completa quella parte di racconto necessario per far sì che le cose esistano. Mi ha sempre appassionato questo libro molto famoso di Bruce Chatwin che si chiama Le vie dei canti, il racconto dell’esperienza sciamanica di alcuni sciamani del Borneo che percorrono ogni anno dei luoghi di pellegrinaggio camminando, cantando, perché i luoghi, solo una volta cantati possono esistere realmente. È una metafora del fatto che i luoghi, le cose se non vengono raccontare, non esistono. L’arte è l’elemento di raccordo narrativo necessario per far esistere le cose. Questa potrebbe essere, se non l’unica, almeno una delle letture appassionanti della funzione dell’arte.

Che cosa pensa della musica che, al contrario (un po’ come l’Estetismo, antagonista del Verismo e del Naturalismo che intendeva l’obbiettivo dell’opera creativa come rappresentazione di se stessa e non della natura) per definirsi “sperimentale” si allontana il più possibile dalla natura?

Con i rumori ho lavorato in diverse direzioni, ho realizzato due anni fa un album nel quale insieme a un musicista di musica elettronica di nome Mana, abbiamo registrato per una settimana, giorno e notte, tutti i suoni della nostra città, cioè di Torino, e abbiamo trasformato tutto questo mondo sonoro (che non è un mondo naturale, ma è naturale per noi che lo abbiamo nelle orecchie da quando siamo bambini) in un corpo ritmico per dare vita ad un album jazz. Abbiamo trasformato l’intera città, in qualche modo, in una batteria jazz. Così come nel jazz, la batteria rappresenta la frenesia urbana. Abbiamo creato questa struttura ritmica chiamando a suonare tra i migliori jazzisti europei (che risiedono poi a Torino) che sono Emanuele Cisi (che ha composto per noi anche i brani), Enrico Rava, Gianluca Petrella, Furio di Castri, Flavio Boltro… Questo per dire che il mondo dei rumori che incontri accidentalmente, che siano della natura o rumori d’artificio, meccanici, della città, contengono una musicalità che mi piace andare ad esplorare, estrapolare e, in qualche modo, trasformare. Avendo adesso questi due elementi, mi piacerebbe completare un percorso e creare un album, senza l’utilizzo di strumenti, con suoni registrati dalla natura. Anche le suggestioni che Michelangelo Pistoletto da con la formulazione del suo Terzo paradiso (opera unente i due cerchi dell’Infinito e un terzo cerchio), che rappresenta la necessità dell’uomo ha attraverso l’artificio di riconnettersi con la natura per salvare il luogo in cui viviamo, in questo momento mi interessano molto.

C’è qualcosa che dalla natura possiamo imparare, oggi più che mai?

Direi che dalla natura abbiamo imparato tutto. Basti pensare a noi musicisti! Solo la prima lezione di musica alle scuole medie ci ha insegnato che gli strumenti a fiato sono stati suggeriti dal vento che suonava attraverso le canne e produceva dei suoni… Mi ricordo ancora in una vacanza in Martinica svegliato dall’esuberanza degli uccelli tropicali che cinguettavano vicino alla finestra, nel dormiveglia ho pensato che quei cinguettii, quei suoni sincopati non potessero che essere all’origine della musica più tipica del Centro America, dell’Africa, appunto molto ritmata e sincopata anche lei, perché avevano delle strutture ritmiche molto simili. Forse quello che dovremmo fare oggi, più che imparare, è riflettere su quanto la natura ci ha insegnato. Anche le nostre esperienze artistiche di tipo figurativo, dal punto di vista estetico, forse non possono che tentare di emulare i colori, lo stupore della natura che ella stessa genera, appunto, nelle sue forme e nei suoi colori. Soffermarsi su questo aspetto è già un bel modo di entrare in contatto, di ricreare le proporzioni tra noi che siamo un accessorio nella natura di questo pianeta e la natura stessa.

In un’intervista precedente (per distopic.it) afferma che la sua è una generazione di “cappa e spada” e che, in questo senso, avete più cose in comune con i ventenni ed i trentenni che non con gli attuali quarantenni, la Generazione X. Ci può dire perché?

L’elemento cappa e spada è un elemento tipico della nostra generazione. Io appartengo a quella fascia ristretta generazionale nata un po’ sotto le macerie della frantumazione dei sogni di quella precedente, cioè della generazione degli anni ’60. Noi siamo arrivati dopo, i segni della frantumazione, della dispersione e della disillusione erano evidenti. Ma qualcosa di quell’impeto e di quello slancio ci è rimasto addosso, unitamente al fatto di doverci costruire i riferimenti da soli. Noi, in qualche modo, abbiamo dovuto costruirci da soli le nostre dimensioni, un po’ come se fossimo “senza padri”, senza riferimenti ma con molta voglia di fare. Credo che la generazione immediatamente successiva, quella nata e cresciuta negli anni ’90, abbia trovato uno scenario più confortevole, con una maggiore ricchezza di proposte, con un futuro non minato, non minacciato come quello che avevamo noi all’epoca, che poi è lo stesso che si ritrovano i ventenni ed i trentenni di oggi. Ci uniscono lo stresso spirito del “do it by yourself” per dirla all’anglosassone, nel doversi costruire tutto da soli, comprese le coordinate per il futuro, chiaramente attingendo a delle energie e ad una necessaria voglia di fare e di costruire che forse la generazione precedente non era stimolata ad avere. Personalmente, mi trovo davvero molto in sintonia con i ragazzi che hanno la metà dei miei anni. Ho vissuto le loro stesse cose, le capisco, le intercetto.