Mentre i maggiori e più ricchi festival autunnali stanno per esaurire la loro corsa, o l’hanno già conclusa, in dicembre saranno soprattutto i teatri di tradizione, e d’opera e balletto italiani ad offrirci novità. Di sicuro per quanto concerne “TorinoDanza 2019”, iniziato nell’ormai lontano settembre scorso, ha avuto grande impatto sul pubblico l’ultimo spettacolo in cartellone: Kamuyot del celebratissimo coreografo israeliano Ohad Naharin per il suo Batsheva - The Young Ensemble.

Il gruppo, formato da giovanissimi, fu creato subito, nel 1990, quando Naharin si insediò alla testa della principale Batsheva Dance Company e da allora ogni anno seleziona non meno di 400 candidati per apprendere, da tempi però più recenti, soprattutto il metodo definito “Gaga”. Giorno per giorno i danzatori in erba si abituano a sentire ogni parte del corpo e ad esprimersi attraverso tutti i sensi secondo i parametri inventati e messi a fuoco dall’ingegnoso “Mr. Gaga” (titolo di un sorprendete film di Tomer Heymann dedicato proprio a Naharin). Questo The Young Ensemble è dunque la fucina dalla quale poi, per chi emerge, il passaggio nella compagnia dei collaudati professionisti giunge naturale.

Presenti anche al “Florence Dance Festival” con Decadance (2000) in luglio, la vetrina estiva diretta da Marga Nativo e Keith Ferrone e approdata quest’anno alla sua 30ma edizione, i quattordici, giovanissimi, israeliani hanno invece offerto a “TorinoDanza 2019”, proprio Kamuyot (ovvero quantità), un’affascinante avventura interattiva, di soli tre anni successiva a Decadance ed espressamente destinata a un pubblico dai 6 ai 90 anni… L’incipit, nell’intricato e ricchissimo collage musicale, mette subito di buon umore grazie a Lou Reed e al suo We’re Gonna Have a Real Good Time Together. I costumi dei performer: gonnelline scozzesi, calze strappate, semplici t-shirt si amalgamano in una sorta di “piazza” con il pubblico seduto sui quattro lati, senza più barriere tra scena e platea. Ebbrezza ed entusiasmo spiccano nei grandi insiemi anche a terra, mentre qualche goccia amara o pensosa spunta negli assolo.

La pièce rimescola infatti estratti anche da Mamootot (2003) e dal successivo Moshe, performance, queste ultime, non proprio adolescenziali, ma al coreografo piace molto il gioco dei rimescolii e delle citazioni “sghembe”. Così, oltre a muoversi avanti e indietro e al centro dell’agora, i danzatori invitano il pubblico ad unirsi a loro nelle camminate, nelle pose statiche, guardano negli occhi i singoli spettatori e catturandone delicatamente le mani.

Anche quando non si crea un’interazione diretta, Kamuyot emana empatia. Ad un certo punto, sulla versione rock di Do You Wonna Dance di Bobby Freeman, tutti saltano velocemente, si mettono in posa, e poi sprizzano dall’altro lato della “piazza”, così vicini agli astanti che è impossibile non notare nei loro occhi il malizioso piacere di catturare l’attenzione anche con una gestualità del tutto infantile: lingue che uscite di bocca battono l’aria, volti che si schiaffeggiano, petti che si percuotono quasi per chiedere perdono ai genitori. Il finale è una festa, in cui “i bambini” hanno ormai più che conquistato ed estasiato, per la spontanea bravura, chi ha goduto della loro adorabile giovinezza. Kamuyot è un leggero alito di farfalla che si posa sui nostri tempi bui.

Molto meno accondiscendente e non solo perché ricca di citazioni, riferimenti a testi e a test estrapolati dall’incontro con persone di vario genere, la “Family Trilogy” (Vader-Moeder-Kind) dei Peeping Tom. Ha tenuto banco, sempre a “TorinoDanza 2019” sia per l’esaustiva decisione di presentare i tre capitoli dell’avventura (2014-2019) del gruppo belga, sia per la calorosa accoglienza del pubblico. Ci siamo già soffermati su Kind (Figlio) in una precendente riflessione da “Aperto” (8- 9 ottobre 2029), il Festival multidisciplinare dei Teatri di Reggio Emilia. Ma pure Vader (Padre) e Moeder (Madre) non deragliano dai Leitmotive dei Peeping Tom già menzionati in Kind: anzitutto la più che oculata scelta dello spazio, o meglio proprio dell’habitat in cui le pièce vengono progettate. In Vader siamo in una casa di riposo; in Moeder in un museo. L’ospizio, quasi sotterraneo, è popolato di anziani che provano a rendere meno triste il tramonto delle loro vite. Operazione quanto mai difficile, nonostante l’orchestrina che di tanto in tanto rallegra l’atmosfera e ravviva quella luce funerea che filtra da una sola finestra.

Il protagonista di Vader, Leo De Beul, straordinario ottantenne, talvolta in carrozzella, talaltra concentrato in balli orecchiabili, è il soggetto-oggetto delle “colpe dei padri”. Suo figlio - un gigante di mezza età - entra ed esce solo per visite fugaci, ed è a sua volta padre di un giovanotto che gli rimprovera di non aver mai condiviso nulla con lui e la famiglia. Tre generazioni a confronto: un micidiale cocktail di indifferenza affettiva rotta dall’ottantenne: ben accudito da inservienti/ballerini dell’ospizio, li crede figli segreti, tra momenti di presenza e allucinazioni anche esilaranti. È questo una sorta di Dio smemorato senza più alcun potere sulle proprie creature e in procinto di abbandonarci come ci ha del tutto lasciati, nel bene e nel male, la figura tradizionale del pater familias.

Il museo di Moeder non è ambiente meno inquietante e pure ambiguo: accoglie una camera funeraria o una sala parto? Un maturo padre e custode del museo, annuncia la tristezza del giorno: una donna (madre?) rantolante appare su di una bara nella sala parto. Il dolore di una figlia si liquefa in una danza strascicata a terra, sull’acqua creata da effetti sonori, ma anche sulle copiose lacrime di un’immobile donna delle pulizie. Una giovane culla il suo neonato: esplode la gioia. Nella sala parto tutti si trasformano in rock-star e cantano. Peccato che la vertigine dinamica, avvolta nel cellophane in cui si esalta la genitrice, le faccia sottrarre il pargolo da una feroce infermiera asiatica, sempre dolorante e, nel corso della pièce, sempre incinta. Ai genitori del neonato sottratto - una bimba - vengono consentite visite solo per i compleanni.

Intrappolata com’è entro un’incubatrice, la piccola ingigantisce ad ogni genetliaco sino a diventare una debordante massa di carne. Raggelante. Tanto più quando si scopre tra i quadri del museo, il disegno di un cuore pulsante, sanguinolento e in un cassetto della parete la figlia obesa dell’incubatrice: morta. Sua madre insegue (in sogno?) una ragazzina “normale”; il padre-custode dichiara di essere orfano e vedovo due volte. Ironia pruriginosa e brutale, rafforzata nel finale quando la sala parto acquista i colori di un giardino fiorito. Una danzatrice aveva accostato la sua guancia a un paesaggio di natura: la madre, figura centrale per lo sviluppo cognitivo-emotivo dei figli, è oggi troppo spesso sfuggente, irraggiungibile. Un nostalgico profumo di fiori? Grazie all’argentina Gabriela Carrizo e al francese Franck Chartier, autori a turno e poi in coppia delle tre pièce nasce un racconto fantastico, mai didascalico. Tra meravigliose e flessuose danze, acrobazie, musiche varie e poche, calibrate, parole le pièce a tutto tondo dei Peeping Tom (dall’inglese: guardone) pungono, rattristano, muovono a commozione, ma anche al riso e di sicuro centrano l’obiettivo di restituirci una visione problematica della famiglia nell’epoca in cui pare dover scomparire, generando sensi di colpa, desideri repressi, frustrazioni e soprattutto solitudini incolmabili.

Indifferente a psicologia e a riferimenti diretti alla società odierna - semmai sottotraccia e interpretabili nei modi più diversi - l’indovinato Sisyphus/Trans/Form rilettura in forma site–specif di Still Life (2014) del greco Dimitris Papaioannou. È comparso per cinque repliche negli spazi ampi della Collezione Maramotti di Reggio Emilia, in collaborazione con il Festival “Aperto”. L’artista che ha ormai terminato la trionfale tournée del suo penultimo spettacolo (The Great Tamer, 2017), prima di un nuovo debutto in maggio ad Atene (la città dove è nato nel 1964), ha qui riassunto e concentrato con brevi azioni di grande forza e poesia, ciò che in Still Life era ampiamente dispiegato a partire dal celebre Mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo di Albert Camus (1942). L’eminente scrittore/filosofo non solo paragona Sisifo al più scaltro dei mortali, tanto da essere considerato (secondo la leggenda) il vero padre di Ulisse, ma lo immagina come “uomo felice”. Eppure Sisifo, per le astuzie e malvagità commesse, aveva contratto un tale debito nei confronti degli dei da essere punito con la costrizione, ci informa l’Odissea, a trascinare un enorme masso sino alla cima del lungo pendio di una collina per farlo rotolare dall’altra parte, ma una volta giunto in prossimità della vetta, il masso, come spinto da una forza divina, ruzzola nuovamente a valle, costringendo Sisifo a ricominciare la sua fatica da capo, con il sudore della fronte e una nuvola di polvere che lo circonda, e tutto ciò per l’eternità.

In Sisyphus/Trans/Form, cinque performer in completi scuri (la divisa cara a Papaioannou), tra i quali due donne a turno, si affannano nel trasportare pile di mattoni, nel trascinare un largo muro impolverato cercando di penetrarlo. Il silenzio circonda azioni al limite di una magica violenza: se è sempre uno il performer che sudando trasporta il muro sbrecciato (in realtà di polistirolo, ma l’effetto della pesantezza resta) chi lo penetra da una parte e dall’altra sono altri performer con braccia, gambe e teste che spesso si espongono alla visione del pubblico, oppure restano intrecciate, secondo un metodo chiamato “Body Mechanic System”. Inventato dallo stesso Papaioannou, questo sistema parrebbe derivativo del butoh, la nuova danza giapponese che già alla fine degli anni Cinquanta, deformava i corpi nudi e coperti di biacca dei suoi adepti, ma per un tuffo istintivo negli abissi dell’inconscio. Al contrario, Papaioannou che pure apprese in gioventù i segreti del butoh in America da Min Tanaka, crea solo l’illusione della distorsione delle membra con astuzia meccanica e indolore.

D’altra parte questo coreografo-regista, diventato notissimo in una manciata di anni successivi alle Cerimonie di apertura e chiusura dei Giochi Olimpici ad Atene da lui curate in mondovisione (2004) ma soprattutto, dal vivo, dopo il duetto Primal Matter (2012), nacque con uno spiccato talento per la pittura (enfant prodige, a tre anni sapeva già disegnare come un adulto, e a diciannove gli organizzarono una mostra personale) e da lì aggiunse alla sua arte primaria la danza e la messa in scena teatrale creando opere totali, vere e proprie Gesamtkunstwerke, in cui prevale l’invenzione di immagini sorprendenti, tra ricorso al mito, alla sua cultura tradizionale greca, a citazioni pittoriche pescate nella storia di ogni secolo, soprattutto alla pulsione sperimentale tesa ad esplorare, grazie alle suggestioni offertegli anche dai suoi interpreti, ciò che non gli è ancora noto. In Sisyphus/Trans/Form alla Collezione Maramotti, spazio artistico lungimirante e già ospite di vari metteur en danse, non poteva esserci il grande cellophane che sovrasta Still Life per poi incendiarsi, ma un piccolo cellophane che ricopre chissà cosa e resta di lato come un totem puntuto intonso e inerme.

La luce - un largo proiettore a terra - viene modulata dallo stesso Papaioannou (maestro di cerimonia in Still Life e pure qui), che la trascina, gettando chiaroscuri sulle gesta dei suoi performer e inoltre ne amplifica anche il respiro affannoso, grazie ad un microfono sempre portato con sé. La fine dell’istallazione avviene contro un muro: gli interpreti si affannano ad appiccicare e sostenere lastre di legno lunghe, strette, nere e chiare, creando croci e disegni informali, ma anche questa impresa merita continui “a capo” anche se non esattamente simili alle fatiche di Sisifo, e si conclude con un corpo che scopre le natiche tenendo ben ferma l’asse che sostiene contro il muro, come gli altri performer. Essenziale, minimalista ed intensa, l’istallazione di Papaioannou ha dato l’addio all’Italia prima del suo certo ritorno, con la nuova produzione che ancora non ha titolo, sia al reggiano “Aperto” sia a “TorinoDanza”che ne saranno co-produttori.

A pochi giorni dal debutto di Sisyphus/Trans/Form si è affacciata a “Danae”, Festival milanese attivo da ventuno anni We Want Miles, In A Silent Way del gruppo Nanou. Aprendo una parentesi dolorosa, sembra doveroso constatare che Milano è città piuttosto ingrata per la danza contemporanea; vanta festival di media e piccola levatura e ospita qua e là anche nomi importanti, tuttavia non possiede nessuno dei lunghi e articolati festival che regnano da tempo a Torino, Roma, Reggio Emilia. È un buco nero, anche progettuale, di cui la città non si può certo vantare. La pièce dei Nanou, qui guidati da Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, reca già nel titolo la sua fonte ispiratrice: Miles Davis, uno dei maggiori musicisti nella storia del jazz. È formalistica e nello stile dei ravennati Nanou non rinuncia a quelle strisce di luce, qui di vari e cangianti colori, che servono da binari, o creano recinti ove la danza vive in una successione di quadri.

Curiosa la figura maschile in completo nero di spalle che appare subito all’inizio e mostra un piede fuori dall’asse del suo equilibrio, calzato di giallo. Costui, ricompare a tratti, spesso per semplici camminate, o per danze “libere”, molto diverse da quelle elaborate con tecnica e precisione dalle tre danzatrici: Carolina Amoretti in calzamaglia dal busto color carne e dai lunghi capelli, Marina Bertoni, in camicia bianca a sbuffo e pantaloni verdi attillati e la stessa Bracci, interprete e co-coreografa anche in costumi quotidiani: tute con cappuccio, ad esempio. Sul fondo un pannello chiude lo spazio a metà e lascia comparire e scomparire le interpreti: si tinge anch’esso di vari colori partendo dal rosso. La danza fa uso di linee rette, di braccia tese, di evoluzioni tonde nello spazio ed è differente per ognuna delle tre danzatrici anche se questa diversità, ad eccezione della Bracci che spesso si rotola a terra, è dettata per le altre due soprattutto dalla velocità d’esecuzione e dalla personalità di entrambe.

In un’ora si consuma un omaggio a Miles Davis che non parte esattamente da sui brani musicali, bensì dal suo metodo compositivo, dalle sue “strutture”. Le percussioni, a lato della scena del Teatro Out Off che ha ospitato “Danae”, sono guidate da Bruno Dorella e rielaborano e trasfigurano brani di Miles, preferendogli anche inserti elettronici o silenzi puri e secchi. In questo modo cromatico-danzato e con musica live anche non di Davis, se non nella parte finale, fuoriesce la celebre tromba del cosiddetto “principe delle tenebre”, scomparso a Santa Monica nel 1991. Sulla personalità ombrosa di Miles restano molti ricordi e testimonianze. Tra le sue frasi più celebri risuona quel “Perché suonare tutte queste note quando possiamo suonare solo le migliori?”, sintesi di una poetica basata sull’inconfondibile suono languido e sull’emotività controllata del suo strumento d’elezione, piuttosto che sul virtuosismo fine a se stesso. Esempio esplicito della sua grandezza è Kind of Blue (1959), che forse rimane uno degli album jazz più popolari di tutti i tempi, avendo venduto oltre quattro milioni di copie solo negli States.

In We Want Miles, in a Silent Way i Nanou, emersi all’inizio del terzo millennio, provano a cimentarsi con il modo di comporre di questo campione di sobrietà e insieme di versatilità che regalò non solo al jazz ma forse a tutta la musica nel suo insieme, un patrimonio ancora vivo. Hanno debuttato pure a New York e a Ravenna Festival: ovunque dimostrando il rigore e la serietà della loro ricerca per la quale hanno persino scelto un docente di cromatologia (Daniele Torcellini) per la collaborazione al dispositivo scenico e per i colori, bellissimi, che invadono lo spettacolo. Tra tocchi inattesi e persino ludici, come la presenza maschile - forse ombra dello stesso Miles - l’unico neo parrebbe la materia danza di due delle danzatrici (Amoretti e Bertoni): non tanto per come viene impeccabilmente restituita, bensì per una sorta di ripetizione dei movimenti spesso troppo identici e che possono ingenerare monotonia.