C’è un passo in The Hills, la penultima canzone di Thanks For The Dance, l’album postumo che chiude la discografia di Leonard Cohen, in cui si ascolta: “My page was too white/My ink was too thin/The day wouldn’t write/what the night penciled in”. Più o meno: “La mia pagina era troppo bianca/Il mio inchiostro troppo esile/Il giorno non avrebbe scritto/quello che la notte aveva abbozzato”. Una dichiarazione di inadeguatezza in un pezzo scritto da quello che certamente rimarrà nei decenni come uno dei migliori autori di canzoni di sempre. Che nell’ultimo brano del suo ultimo album dice: “Listen to the hummingbird, whose wings you cannot see/Listen to the hummingbird, don’t listen to me”. Ascoltate il colibrì, non me.

Il disco uscito il 22 novembre è un lavoro di cui bisogna raccontare la genesi. Cohen aveva da poco finito di lavorare a You Want It Darker e a quanto pare non stava bene, sapeva di non avere molto tempo a disposizione. Aveva una manciata di testi, alcuni inediti e altri usciti in raccolte poetiche, con i quali avrebbe voluto comporre un album conclusivo. Quindi fece promettere al figlio Adam, che di mestiere fa il cantautore anche lui, di terminare il lavoro nel caso non fosse riuscito a farlo in prima persona.

Eccole qui, queste nove canzoni, queste nove tracce che hanno in comune una caratteristica: la musica è stata aggiunta dopo la morte di Leonard, anche se in alcuni casi esisteva una linea melodica di base (e sono quelle in cui Cohen effettivamente canta) e in un caso (Thanks For The Dance) avevamo già una versione pubblicata dalla ex compagna Anjani Thomas sul suo disco Blue Alert del 2011.

Per portare alla fine il compito Adam Cohen si è messo accanto un gruppo di collaboratori e amici di grande livello (Daniel Lanois, Beck, Damien Rice, Leslie Feist, Richard Reed Parry degli Arcade Fire, Bryce Dessner dei National, Patrick Watson, Jennifer Warnes), e soprattutto ha consegnato le chitarre acustiche del padre nelle mani di Javier Mas, che già aveva una lunga militanza al suo fianco. E a essere sinceri la cifra musicale più riconoscibile del disco la definisce proprio il chitarrista, che suona anche il liuto spagnolo, mentre di tutta la pattuglia di ospiti non si ha un segno particolarmente incisivo. E probabilmente va bene così: tutti hanno voluto farne parte, nessuno ha voluto sovrastare. Anche perché la scelta di fondo che è stata fatta è (giustamente) quella di non caricare di suoni e di musica i pezzi. Una scelta condivisibile per due motivi: primo perché dà importanza al peso specifico delle parole, secondo perché, essendo un lavoro a cui Cohen non ha potuto partecipare direttamente, era corretto lavorare per “sottrazione”.

Il risultato è eccellente, perché in realtà la musica si sposa perfettamente con i testi. Ci sono momenti in cui si può parlare di versi cantati (Thanks For The Dance, ma anche Happens To The Heart, il refrain di The Night Of Santiago, buona parte di Moving On e di The Hills, ma anche passi di It’s Torn) ed altri in cui Leonard declama, seppur con una cadenza molto musicale, mentre gli strumenti lo accompagnano seguendo l’andamento delle strofe: succede in Puppets, in The Goal, in Listen To The Hummingbird. Eppure non c’è un solo momento debole in tutto il disco, non c’è una traccia che non appaia all’altezza di un canzoniere personale da sempre passato al vaglio della selezione più spietata, con pezzi rimasti in lavorazione per anni, a volte per decenni, e in alcuni casi mai arrivati a una qualità che l’autore considerasse degna di farli finire in un album. Se Thanks For The Dance probabilmente non può competere per la palma del miglior lavoro di Cohen, certamente non è tra i meno potenti, anche in una collezione che di veri e propri passi falsi non ne contiene, una volta ammesso che Dear Heather era un progetto più esile degli altri dal punto di vista musicale, e una volta rivalutato in parte Death Of A Ladies’ Man, che per lungo tempo sia Cohen che la critica avevano bistrattato, non senza qualche ragione ma troppo spietatamente.

Le parole, naturalmente, sono come sempre protagoniste assolute. Ed è sorprendente come un ottuagenario alla fine della vita abbia raggiunto poco prima di andarsene un livello di lucidità spaventoso, che se da un lato non si fa più condizionare dalla depressione e dall’altro non edulcora una visione di se stesso e del mondo per niente consolatoria, riesce comunque a tenere tutto in equilibrio, forse per una raggiunta consapevolezza spirituale, forse per l’aver capito che non realizzare il proprio scopo nella vita non deve essere fonte di disperazione, ma di serena presa d’atto. In questo senso credo che vadano letti i versi finali di The Goal, quando Cohen dice: “No one to follow and nothing to teach/Except that the goal falls short of the reach”, che si traduce con: “Nessuno da seguire e niente da insegnare, se non che la meta non è a portata di mano”. Una chiosa amara, ma che allo stesso tempo è capace di ridimensionare le delusioni per gli obiettivi mancati. Nei momenti finali di un’esistenza si realizza che non c’è più niente da insegnare o da imparare, e non ci sono altri passi da compiere per avvicinarsi alla meta: è semplicemente la natura umana, il suo limite. È una condizione che si può conquistare solo poco prima di spengersi. E infatti, per citare ancora Cohen dal brano di apertura, Happens To The Heart: “Il mio fuoco ha fallito, ma la scintilla morente brilla”. Nella ricerca di una dimensione spirituale compiuta, di cui probabilmente l’autore sta parlando, la fiamma alla fine si esaurisce, ma l’ultima scintilla prodotta è una particella luminosa di bellezza inestimabile.

Le canzoni di questo disco hanno ognuna una vita, un’origine e un significato proprio, ma si possono guardare dallo stesso punto di vista, e ci si trova uno spirito comune. Ecco perché il ballo per cui Cohen ringrazia nella title-track, si riferisce certamente a un legame sentimentale con una donna, ma anche alle danze che la vita gli ha concesso, alla danza che la vita stessa è stata, “One two three, one two trhee”, fino all’ultimo giro, all’ultima nota.

E poi c’è la bellezza abbagliante di singoli versi, perfino a prescindere dal significato delle canzoni di cui fanno parte. Come questo passo di It’s Torn: “And now that you told her/And now that It’s done/The name has no number/not even the one”. Tradurre Leonard Cohen è sempre un’operazione assassina, perché come in questo caso la metrica e l’eleganza delle rime sono il vero valore. Il numero 1 a cui si riferisce Cohen è certamente Dio, e subito dopo continua così: “Metti insieme i pezzi, andati perduti e sparpagliati/La menzogna in ciò che è sacro, la luce in ciò che non lo è”.

Un mondo complesso, quello di Leonard Cohen, in cui difficilmente un verso ha un’unica lettura possibile e a volte anche un’unica intenzione. Un paesaggio in cui si si orienta tenendo presente le coordinate di una poetica coerente con se stessa fin dagli esordi, a metà degli anni Cinquanta, quando vennero pubblicate le prime poesie. La dimensione spirituale, l’eros, il conflitto, la continua ricerca, ma anche il valore del piacere solo apparentemente effimero.

Torniamo a Listen To The Hummingbird, che sigilla l’opera. Dice Cohen: “Ascoltate il colibrì, non ascoltate me”. Che si può leggere in due modi: “Ascoltate la perfezione del colibrì, alla quale non potrò mai aspirare”. Ma anche: “Non c’è bisogno che ascoltiate me, se ascoltate il colibrì”. Un po’ come se Leonard volesse per l’ultima volta, e con l’accuratezza più chirurgica di sempre, scartare il superfluo, per illuminare l’essenziale. E infatti il finale è: “Ascoltate la voce di Dio, che non ha bisogno di essere/non ascoltate me”.

L’uno, il tutto, l’unica perfezione che (non) esiste.