MusicaParte è il tuo nuovo album, arriva a tre anni di distanza dal precedente Zona Franca. Che differenze ci sono tra questi due dischi?

Zona Franca nasce da una riorganizzazione strutturata e ragionata in funzione di ascolto puramente musicale di frammenti, appunti, idee che avevano fornito l’impronta sonora di contesti artistici (teatro, documentari, danza, arti visive) extramusicali. MusicaParte è invece un progetto di “composizione pura” (tranne il brano Soledad, ispirato a un racconto di Francesca E. Monte) che prescinde da stimoli, commissioni, commistioni di altra natura. Vero è che tra un disco e l’altro ho continuato a frequentare e ad essere coinvolto negli ambienti sopra citati, in particolare con la danza contemporanea o in reading teatrali, ma questa nuova raccolta di brani nasce a prescindere da particolari stimoli, ma non è escluso che i brani che la contengono possano, di converso, essere adattabili, ad esempio, a commentare immagini o altro. Anzi, in tal senso qualcosa si sta già muovendo, ma ora è presto per poterlo anticipare.

MusicaParte: perché questo titolo?

Mi è sempre piaciuto giocare con le parole composte: per il loro impatto sonoro, per il senso che emanano e, come nel caso del titolo che ho voluto dare alla raccolta, per la pluralità di significati che ne possono scaturire. Intanto quella P maiuscola, posta quasi al centro, fa da spartiacque e al contempo da trait d’union tra i due sostantivi affini e coerenti quali musica e arte. Poi si possono trovare altri significati: Parte come codificazione, organizzazione, scrittura, ma anche Partenza: per situazioni, luoghi della mente, immagini o suggestioni che possono fluire durante l’ascolto. Se però detto, oltre che letto, può dare l’idea di una musica a parte, cioè che va al di là di generi definiti; che sta in un territorio appartato. Se vuoi un significato analogo e coerente a quello attribuito al precedente “zona franca”, cioè di una musica che un tempo veniva definita “di frontiera”.

Già in Zona Franca si percepiva l’orientamento musicale di Franco Olivero, a cavallo tra generi e culture. Anche MusicaParte segue questo percorso tra jazz, musica colta, world music: qual è il segreto per alimentare e non indebolire questa ricerca?

Il termine “percorso” che utilizzi, mi dà lo spunto per rispondere. Queste inflessioni stilistiche (jazz, world, musica colta) sono frutto, appunto, di un percorso: di ascolto, di ricerca, di adesione e certamente di studio. Questo è l’aspetto che forma o che, in modo più autoreferenziato, mi ha formato: poi però, dopo questa tappa, si tratta di rendere compatto quello che secondo me deve essere l’obbiettivo di ogni artista, non solo musicista: la ricerca di una propria identità e peculiarità espressiva. Immagazzinato un bagaglio dovrebbe succedersi una nuova tappa verso una meta più ambiziosa. Inizia dunque una nuova fase del percorso che definirei di crescita: un viaggio dentro se stessi, all’interno delle proprie istanze interiori, una redistribuzione coerente e, appunto, compatta di questo bagaglio. Ci vuole coraggio e spregiudicatezza ad abbattere senza pudore quelle barriere che spesso lo stesso mercato impone. Indebolirsi significa questo: aderire a dei modelli senza chiedere nulla a se stessi, ricalcare schemi, imitare.

Dodici brani, dieci firmati da te, due “reinvenzioni”: la prima è Greensleves, la seconda L’amour est mort. In che modo hai proceduto al rifacimento di questi due brani?

Greensleves è a mio avviso una di quelle melodie magiche che travalicano lo spazio (il luogo in nel quale è nata, cioè l’Inghilterra di Enrico VIII) e il tempo, dunque gli stili. Coltrane stesso l’aveva “trattata” nel suo periodo modale quasi come se fosse un raga indiano. Uno di quei temi che mi “scappano” da sotto le dita quasi tutte le volte che prendo uno strumento in mano. Fa parte, in coerenza a ciò che ho detto prima, del mio bagaglio. Il mio intervento, la mia impronta tracciata in questa operazione di riscrittura è stata quella di fare appoggiare questa splendida melodia in un contesto ritmico ma soprattutto armonico dove essa rimanesse intatta ma al contempo fosse possibile giocarsela (nell’accezione to play appunto…) con i musicisti che la suonano: un interplay, come emerge credo dall’ascolto, volto a creare tensioni e distensioni a partire dallo stimolo che essa può creare.

Altro discorso vale per L’amour est mort. Jacques Brel è uno dei pochi cantautori, chansonnier per essere più corretti, che ascolto. Senza riserve posso dire che è il mio preferito. Un artista totale la cui poetica si snoda con ineguagliabile destrezza ed eleganza tra poesia, musica, teatralità, presenza scenica e quant’altro. Il suo messaggio, credo, arriva anche se non si conosce il francese. Io che conosco la lingua, avendo frequentato assiduamente l’oltralpe da giovane, colgo ogni volta che lo ascolto passaggi espressivi che fanno breccia nel mio cuore. Il mio, nei suoi confronti, non vuole essere altro che un modesto e forse irriverente omaggio ad una di queste componenti elencate prima, quella musicale, che contraddistinguono la grandezza della sua poetica.

Paolo Franciscone, Francesco Bertone, Alberto Bellavia sono i musicisti che hanno dato vita a MusicaParte insieme a te. Semplici esecutori o hai optato per un maggiore coinvolgimento?

Sicuramente non semplici esecutori. Certamente capaci di leggere una partitura al volo ma altrettanto unici nell’entrarci dentro, tant’è vero che ognuna delle take registrate durante la seduta in studio quasi mi sembrava nuova, quasi come se l’avessimo ricomposta insieme. Con Paolo e Francesco abbiamo già registrato altri due dischi, una sezione ritmica precisa, affiatata, che viaggia sui tempi di una creatività stimolante e ultra coinvolgente. Alberto è stata una preziosa scoperta: compositore di musiche da film e pianista versatile, sensibile e virtuoso. Discorso analogo per i “classici” fratelli Allocco agli archi, il cui apporto su tre brani ha fornito un ulteriore nuance di colore affascinate.

Nel brano che dà il titolo al disco tuo figlio Elia suona il basso: è eclettico come il padre o segue altri percorsi musicali?

Elia ha 18 anni e quest’anno lui stesso mi ha portato a vedere due concerti: Yellow Jackets e Marcus Miller... roba da palati fini che non diresti adatta ad un diciottenne di oggi! Insieme ci siamo gustati concerti dei Deep Purple e Steve Hackett. Poi certo, va a vedere i concerti con i suoi coetanei (Zen Circus, Frah Quintale, Willie Peyote ecc.) ma lì non mi porta, forse per non farmi sentire a disagio! Direi dunque sì eclettico, e se mi permetti di sbilanciarmi (ancorché padre) anche talentuoso e aperto all’ascolto, con un ottimo potenziale musicale nell’anima.

Flauto traverso, sax tenore e soprano, duduk. Quale di questi strumenti usati in MusicaParte ti rappresenta di più?

Il flauto è lo strumento che pratico e studio da più tempo e quindi la mia facciata appare preferibilmente adornata da questo oggetto sonoro. Lo conosco sia nel contesto classico, sia nel colore timbrico moderno, talvolta supportato dall’octaver, come si può ascoltare nel disco. Poi la formazione jazzistica, che ho tra le altre intrapreso in passato, mi ha “deviato” verso i due sax: il soprano in primis e il tenore (che pratico di meno) successivamente. Il duduk è l’ultimo strumento sul quale mi sono un po’ imprudentemente cimentato. Ho avuto l’occasione di essere chiamato a fare delle parti solistiche nello Stabat Mater di Karl Jenkins, nel quale sono previsti due interventi di questo strumento ad ancia della tradizione Armena. Siccome uno dei musicisti dell’orchestra conosceva i miei trascorsi etnici ha pensato di chiedermi la disponibilità partecipare al progetto. L’imprudenza è stata così messa al riparo dalla passione che tale affascinante strumento ha esercitato su di me, dandomi modo di affrontare gli ostacoli tecnici dei quali non ero a conoscenza prima.

Sei un autore aperto alla diversità; infatti, operi tra teatro, cinema, danza contemporanea e arti visive. Qual è l’elemento musicale che accomuna i tuoi lavori in tutti questi ambiti?

La libertà espressiva che paradossalmente questi ambiti extramusicali offrono. Se fai un lavoro solamente musicale prima o poi devi porti il problema di farlo stare in uno stile riconosciuto ed etichettabile. Se invece, supponiamo, lavori con un attore l’attenzione è rivolta ad altre componenti: il testo, il modo di esprimerlo, la trama emozionale che si vuol creare... dunque: non mi pongo più il problema se ho o non ho un fraseggio jazz, se faccio un richiamo melodico che assomiglia a una ninna nanna di tradizione orale o classica ecc... Ecco da dove arriva il mio eclettismo, dalla necessità (piacevole) di creare dei quadri emozionali, delle immagini, delle suggestioni veicolate da quell’immenso universo comunicativo che è la musica. E poi la mia passione per le arti visive è ereditaria: mio padre lavorava in ambito pittorico ed io oltre agli studi musicali ho fatto il liceo artistico.

Un’altra area importante nella quale lavori è la musicoterapia: in che modo questa attività penetra nella composizione di Franco Olivero?

Se da un lato tendo a distanziare i due ambiti professionali (quello del musicoterapista da quello del musicista) non posso negare che in qualche modo l’uno influenza l’altro: la formazione e soprattutto l’esperienza pratica della musicoterapia mi ha insegnato ad ampliare il mio range di ascolto (in termini non solo musicali) e di ricerca di comunicazione con particolare attenzione all’aspetto del dialogo interattivo. Questo ha sicuramente condizionato la scelta dei musicisti che impersonano l’aspetto che io definisco “sano” del jazz: cioè quello dell’interplay contrapposto a quello insano e autoreferenziale dell’esibizionismo tecnico. È anche vero che (la domanda me lo fa venire in mente) alcune idee compositive sono nate suonando il pianoforte nella mia aula in attesa tra una seduta e l’altra...