Il 2020 è appena iniziato ed abbiamo già individuato uno degli spettacoli più interessanti dell’anno.

La Luna e i Falò portato in scena da Andrea Bosca, diretto da Paolo Briguglia per BAM Teatro e co-firmato dall’attore stesso, è un monologo sublime che lascia senza fiato.

Il carattere ipnotico del testo (giustamente definito ‘canzoniere in prosa’) è magistralmente reso da continui cambi di punti di vista. Bosca domina il palco ed ammalia la platea, rendendo Pavese accessibile a tutti, ribaltando l’approccio talvolta distratto che la scuola e la critica hanno riservato allo scrittore.

La Luna e i Falò è un grido accanito, un insieme di frammenti corali artatamente uniti a formare un magma di eco epiche. Ambientato a ridosso della Liberazione nelle Langhe, è un testo estremamente moderno che permette all’impeccabile Bosca di dar voce ad un vortice di personaggi e ricreare un intero paese. Da cosa dipende questa modernità? Come può Anguilla, il protagonista, rispecchiare tutti noi, ancora oggi? Ci riesce perché il nostro smarrimento è il suo ed il ritorno dall’America lo pone in un non luogo di cui è ponte. Torna poiché ha compreso che quelle ‘stelle non erano le sue’, che spesso non è il coraggio a farci partire, ma la disperazione. La prima nazionale al Teatro Alfieri, ci ha dato modo di approfondire la genesi dello spettacolo, con Andrea Bosca.

Quali sfide avete incontrato nel portare in scena un testo di tale levatura, per il quale ti si chiede di dar vita ad un intero paese?

Il lavoro di scrittura è partito un anno fa, conoscendo già il testo. Lavorando con la produzione, ci siamo resi conto immediatamente che lo spettacolo era già interessante di per sé, ma mostrava un problema drammaturgico: i personaggi, che si incontrano sempre per ricordare qualcosa, lasciano poco spazio all’immaginazione. Poiché la natura del testo è quella monologica, ci è parso giusto avere un contraltare artistico, così la produzione mi ha fatto incontrare Paolo Briguglia, di cui conoscevo l’operato ma che non avevo mai incontrato. È stata una grande mossa perché è diventato – insieme a me - l’altra anima della scrittura. Essendo siciliano, c’è una cosa che a parer mio avrebbe potuto capire bene non solo perché è colto ed è un teatrante, ma perché proviene da una terra che conosce la violenza, quindi è stato in grado di cogliere tutti i lati di questo lavoro che non è meramente letterario.

Abbiamo lavorato insieme per sei mesi e chiuso la prima versione ad agosto. Dopodiché, io sono venuto in vacanza nell’astigiano (come faccio sempre) e, circondato da questi luoghi, ho cominciato a studiare a memoria il testo. Un lavoro lungo, durante il quale ho rivisto Paolo ed abbiamo intrapreso un percorso itinerante come quello di Anguilla. La difficoltà interpretativa maggiore è stata quella di mantenere un percorso organico all’interno dello spettacolo, che risultasse vero soprattutto dal punto di vista del tempo, poiché il libro è scritto in maniera a-temporale e a teatro questo non è possibile. Per questo motivo, abbiamo dovuto scomporre l’ultima parte, trovare il senso di un personaggio che arriva ed agisce per un’ora e venti, per poi andarsene. Questa è stata la seconda sfida relativa al lavoro drammaturgico.

Lo spettacolo deve essere fruibile anche a chi non ha letto il libro, ovviamente…

Certo, noi dovevamo rendere questa storia intellegibile a chiunque, senza averlo letto per forza, altrimenti avremmo perso in partenza. Il pubblico deve entrare in sintonia con queste figure così varie e frammentate. È una struttura complessa, che ci ha portato a dover simulare l’intera piazza di un paese, il tutto continuando a guardare la gente negli occhi, parlando cuore a cuore con le persone (come piace a me), per consentire loro di entrare nella storia piano piano.

Com’è stato trovarsi al cospetto di un testo del genere, con un sostrato lirico così evidente?

Paolo vuole sempre essere chiaro, avendo grande senso musicale, ed io tengo molto alla poesia di alcune parti, perché si tratta davvero di un canzoniere in prosa con elementi poetici puri (anche quando a parlare è un contadino); perciò il lavoro duro è stato fatto sui tagli anche se abbiamo sempre dialogato, trovando una sinergia importante.

Ci sono stati momenti specifici in cui tu avresti voluto il testo in un modo e lui in un altro?

Nient’altro che micro momenti, in quanto Paolo mi ha letteralmente cucito addosso lo spettacolo, riprendendo ogni punto e rimanendo fermo e determinato. Quando qualcosa non andava, me l’ha fatta riprovare e l’ho apprezzato molto, perché è necessario rendere lo spettacolo al massimo delle sue potenzialità.

Il risultato è strabiliante e promette di tenerci compagnia anche durante la prossima stagione teatrale.