Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma.

(Bruce Chatwin)

Il nomadismo a cui ci ha abituati da decenni l’arte visiva ha insegnato anche ai coreografi ad essere vagabondi curiosi e onnivori ladri di emozioni. Il nomadismo virtuale ha in seguito scardinato ogni certezza consolidata, ha portato a ridiscutere ogni verità. Inseguendo un segno, un gesto solo, muovendosi a ventaglio all’interno di una creazione, il lavoro coreografico si scardina, affonda, tradisce il suo “movente” e se ne reinventa un altro. Abolite le gerarchie temporali, si “transita” entro il lavoro stesso in modo non lineare, ma con una pratica fatta di affondi e scavi, ritorni e proiezioni personali, assumendo una posizione che non ha alcuna etica privilegiata se non quella di assecondare il senso di una temperatura mentale in sincronia con il momento stesso della creazione.

Frantumare un’opera, resa in passato come spettacolo compiuto di un unico autore, significa assumersi anche la responsabilità di sfasciare il mito dell’“io” e di tuffarlo in un mare di immaginari estranei, dove i punti di sosta, di ancoraggio, di faro nella notte non sono possibili: la salvezza è data dall’estraneità, dalla lontananza dal proprio centro e soprattutto da un’idea di mondo chiuso e obsoleto. Con procedure quasi opposte, questo preambolo è utile per entrare nell’atmosfera di Venezuela e soprattutto di Bermudas. Concepito nel 2017, passato attraverso una notevole serie di trasformazioni e con titoli vari - come Bermudas Tequila Sunrise - adattabile a tre come a tredici interpreti sempre cangianti, a spazi scenici e non - l’odierno Bermudas (visto al Teatro della Triennale di Milano) ha ottenuto il Premio Ubu 2019 per la danza. Un omaggio più che meritato: avvalora il continuo nomadismo di mk, gruppo aperto, dietro il quale si nasconde il coreografo Michele Di Stefano con i suoi inequivocabili titoli da perfetto e ironico agente turistico (Tourism, Speak Spanish, Il Giro del mondo in 80 giorni, Impressions d’Afrique, Robinson, Parete Nord, tra i tanti), che tuttavia non si preoccupa affatto di descriverci i luoghi da lui visitati, vissuti o semplicemente motivazionali, bensì di creare uno spazio in cui risultino evidenti le diversissime personalità e il coraggio dei suoi danzatori nell’avvicinarsi e nell’allontanarsi in un tempo-spazio destinato a lasciare traccia, non solo nei loro corpi, ma anche nelle fantasie dello spettatore.

Chi osserva Bermudas è tentato di aggrapparsi all’evocazione del titolo (sempre dirimente, secondo il geniale coreografo William Forsythe): ossia a quell’arcipelago delle Bermuda, nell’Oceano Atlantico, investito da persistenti burrasche, correnti e tornadi talmente poderosi da aver inghiottito navi e aerei e da essersi guadagnato il leggendario epiteto di “triangolo maledetto” o “del diavolo”. In realtà, chi volesse visitare davvero le isole Bermuda dovrebbe anzitutto dotarsi di una efficace crema solare. Ed eccoci immersi nella luce calda e arancione di Bermudas, estiva come i variopinti costumi dalle fogge sbarazzine degli interpreti subito gettati entro una danza incessante e vorticosa su musiche elettroniche, battenti, synth-pop. Dopo un iniziale assolo femminile, c’è chi detta a voce e con gesti precisi un codice semplice: largo, lungo, rovescio e lato. Tutti i bravi e concentrati performers (otto, a Milano) nelle loro incessanti entrate ed uscite, sempre da sinistra, vi si devono attenere, creando vertigini velocissime, da capogiro, con le braccia aperte (largo) per le continue rotazioni, protese verso il pubblico per quando slittano verso il pubblico (lungo), quasi conserte e dal busto ritorto (rovescio) e così piegate da una parte (lato) nel loro avvicinarsi e ritrarsi, nei salti improvvisi a ginocchia semi-piegate (Biagio Caravano cofondatore e pure coreografo di mk).

C’è caos in scena? Se siamo in grado di ricordare le iniziali regole scandite con brio (da Sebastiano Geronimo) in Bermudas, ci accorgiamo che la qualità del movimento e gestuale dei singoli interpreti muta ogni qualvolta si trova a cospetto di un compagno, in una sorta di baratto energetico, di scambio imprevedibile. Michele Di Stefano ha fatto appello alla teoria del caos (con Damiano Folli, qui consulente matematico) - che dice, in estrema sintesi, quanto uno stato di disordine sia quasi impossibile date condizioni iniziali sensibili - e qui siamo nella fragile, splendente sensibilità instabile dell’umano - poiché prefigura le sue future e arbitrarie variazioni, come nella meteorologia. Ne risulta una danza pura, formalistica, di assoluta effervescenza e di impalpabile leggiadria, anche grazie ad effetti luce molto curati e controluce inattesi. In un solo momento, col mutare del fondale che da bruciante si fa verdognolo, si profila l’assolo del danzatore più maturo del gruppo (Philippe Barbut). Egli sceglie di avvolgersi nelle sue braccia e nel silenzio totale lancia persino un bacio al pubblico. Questo solitario e affettuoso stop interrompe il flusso, come quel gorgo, o centro energetico di un tornado, dal quale poi si scateneranno flussi e turbolenze ancor più potenti. Il codice si riattiva a velocità doppia su ritmi tribali quasi roboanti, sino a che riuniti, tutti si allontanano dando le spalle al pubblico per poi svanire rotando in una luce sempre più fioca. Alla platea resta tutto il calpestio sfrenato dei piedi in calzini colorati (Forsythe docet, ancora!), la corrente magnetica e una possibile, dirompente, onda di pensieri che potrebbe sommergerla.

Curiosamente Venezuela di Ohad Naharin, pièce pure del 2017, ammirata al Teatro Grande di Brescia, sembra iniziare laddove finisce Bermudas. I sedici danzatori della Batsheva Dance Company sono in cammino con le spalle rivolte al pubblico verso un fondale nero come i loro costumi e le basse quinte impilate a destra e a sinistra. Tuttavia, l’ondeggiare sensuale e sinuoso di una danzatrice in scarpette col tacco e lo sfaldarsi del gruppo in coppie da rock’n’ roll o in docili duetti sudamericani sembra contrastare e non poco, con il canto gregoriano che accompagna i loro perfetti e patinati movimenti, qui all’apice di un virtuosismo ad effetto che forse tracima fuori dei confini necessari. La flessuosità del gruppo - cui Naharin offre la sua creatività e il suo metodo “gaga” avendo ceduto la direzione dell’ensemble dopo decenni di direzione - è ormai leggendaria. E qui esplode anche quando da contatti che sembrano carichi di desiderio si passa a certi misteriosi bisbigli di due interpreti. Mentre al microfono essi sussurrano le parole di un rap del celebre (e assassinato) The Notorius B.I.G., le coppie si mettono a “cavallo” dondolando, dondolando: quanto turgore in quelle donne sopra le schiene degli uomini; quanta duplicata sensualità nelle catene a terra di corpi che si snodano.

Eppure si formula un primo stop nell’emozionante azione con l’entrata in scena di una fila di danzatori. Muniti di panni bianchi che lasciano cadere a terra stoffe dorate, gli interpreti fanno frullare queste ultime per aria, prima di sbatacchiarle al suolo. Di qui ha inizio una violenza che lo scandire dei Kyrie Eleison e lo snocciolare il nome dei Santi non riesce a placare. I corpi si trascinano a terra, strisciano qui e là ma si urtano anche in preda a una disperazione ben suggellata da un potente urlo maschile. L’immagine del Sud America felice e gongolante nei suoi famosi balli afrodisiaci lascia il posto ai conflitti aperti e per ora insanabili, al ricordo di quei quattro milioni di emigrés che hanno lasciato il Venezuela dal 2015 a oggi per povertà, timore di nuovi colpi di stato e guerriglie… Per accentuare anche all’interno della coreografia il dominio dei contrasti, Ohad Naharin fa riprodurre lo stesso blocco coreografico di circa 40 minuti nell’ideale seconda parte della pièce che senza soluzione di continuità riprende la camminata verso il fondale e tutto il resto, ma sopra musiche (assemblate da Maxim Waratt) di sapore arabo, africano, esotico vario, rap e techno rock.

Paradossalmente, ma non tanto, l’andamento della costruzione coreografica - dalla sensualità/sessualità al conflitto - viaggia con agio su questa musica del nostro tempo senza il rimorso di quei lembi sacrali e religiosi, di quelle celesti litanie che soffiavano sulla prima parte della pièce. Anzi qui i drappi bianchi sono diventati bandiere del mondo e da esse ne calano altre, egualmente brandite come scimitarre al vento e picchiate a terra. Venezuela addio: adesso è in gioco il mondo nelle sue sempre più allargate zone di guerra e di cataclismi. Le donne continuano ad essere sexy con i loro abiti eleganti arricchiti da una coda di pizzo, ma l’urlo dell’uomo trafigge di più anche se il tutto - ancora 40 minuti - termina con un lieve bacio di coppia, tra applausi che non cessano e forse flebili speranze.