Amor mi mosse, che mi fa parlare.

Il giudizio è sempre esistito, imponendo artifizi sul grado di libertà a cui è sottoposto l’essere umano, abitante in una società completamente dedita all'apparire arguta, moralmente impeccabile, sensibile, solidale ed incline al raggiungimento della perfezione estetica e profetica, in cui si esiste prima in digital view che nella realtà.

La pantomima sul (dis)piacere in terra danza tra tramonti, fiamme, albe, grida, sagome inermi ed uditori senz’arte scossi in uno spettacolo d’arte, Hell in the Cave, inscenato all’interno delle Grotte di Castellana. Come quadri caravaggeschi la trama stilistica dantesca è dipinta con un andirivieni di elementi scenici inarcanti la ratio in un brainstorming di emozioni e di canti recitati al momento giusto smuovendo i meandri più reconditi della coscienza, dando lezione d’umanità e risvegliando da quel torpore vanificante il senno in opinioni dove ognuno denigra altrui e loda sé.

Il giudizio - la consapevolezza (dis)umana - è arricchito, in questo percorso scenico, di un punto di vista epico rapportando ogni singolo presente con esperienze esistenziali, sensoriali e visive che scuotono l’individualità. Ciascuno può esprimersi liberamente rifiorendo ed impersonificando l’umanità cangiante incontrata nelle oscure atmosfere dell’Inferno, ciascuno ne vive a pieno il suo potenziale, che elude la classica esperienza teatrale, ritrovandosi in prima persona ad essere guidato da suoni, dagli attori, da grida, danze e luci, dalla voce narrante pagine dantesche seminate tra concrezioni stalattitiche e stalagmitiche dalle forme più diverse: gambe e piedi di ballerine, una lupa, una civetta, panneggi di stoffa e tutto ciò che il nostro occhio e la nostra fantasia possono immaginare, altre le cui forme sembrano andare contro le leggi della natura e della forza di gravità sviluppandosi, invece che in verticale, lateralmente, a semicerchio e perfino verso l’alto a causa delle correnti d’aria che fanno deviare orizzontalmente il tragitto delle gocce d’acqua, oppure per particolari forme di cristallizzazione.

Rapita l’attenzione, atterriti da invidia, lussuria ed avarizia, lo spettacolo itinerante si svolge nella Grave, prima più vasta caverna del sistema sotterraneo ed unico ambiente naturalmente collegato con l’esterno. Un edificio colossale in cui sono stati considerati alla perfezione i grandi spazi ma anche i minimi particolari, talmente collegati fra loro, da intramagliare un irrefrenabile senso di compartecipazione con le anime disperate. Questa caverna, la più badiale ed alta del complesso carsico, è lunga 100 metri, larga 50 metri ed alta 60 metri. In questo pantheon naturale di fronte al quale ci si sente piccolissimi, l’impatto è subito da brivido. La luce naturale proveniente dal lucernario ha favorito la fotosintesi clorofilliana di muschi e licheni, per cui il colore prevalente che si nota nella Grave, oltre le sfumature del rosso, è il verde. Hell in the Cave, è uno spettacolo che unisce danza, voci, suoni e luci in questo trionfo di scenografia. Ogni cantico, ogni verso recitato, ogni parola urlata, è un germoglio che cresce silenziosamente pervadendo il profondo dell’anima coinvolgendo tutti gli astanti e si ramifica nel girone successivo. Alcuni germogli diventano arbusti, ma così come anche l'arbusto più solitario ha bisogno di muschi e licheni per resistere al vento ed al gelo nel buio della notte, ogni movimento interpretato, ogni endecasillabo si libera dall'egoismo insito in un significato fine a se stesso per abbracciare ogni coscienza, potersi trasformare in emozione, trovando il coraggio per affrontare ogni battaglia, sapendo che c’è un senso più importante della paura.

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita.

Di tante fiamme si accende - con effetti tecnici - tutto il ventre materno cavernoso, una bolgia in cui si assiste ad un’esperienza teatrale incomparabile e grandguignolesca. Dopo aver fatto conoscenza con i demoni, si incontrano Pier delle Vigne, Ciacco, Paolo e Francesca, il Conte Ugolino e Ulisse fino ad arrivare al cospetto di Lucifero.

Lo spettacolo s’intensifica con danze acrobatiche aeree: due corpi volteggiano danzando tra drappi e veli, sospesi nella Grave. Sono la rappresentazione di Francesca da Rimini, amante di Paolo Malatesta e sposata con il fratello di lui, Gianciotto.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.

Mente la voce narrante recita il verso 103 del canto V nell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri, altri corpi nella grotta mimano – come fossero quadri viventi – Paolo e Francesca. Poi grida ed anime disperse negli inferi.

Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

Nel corso dello spettacolo, descrivendo le peripezie di Ulisse, un perfomer, tendendo il corpo, legato ad un tessuto rosso, come un arco celeste pronto a scoccare frecce di fiamma, esegue diverse figure acrobatiche, effettuando grandi rotazioni aeree aggiungendo grazia ai suoi movimenti e magia ai suoi voli.

Vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore;
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola dalla qual non fui diserto.

L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola de’ Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.

Io e' compagni eravam vecchi e tardi.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.

Il giudizio, narrato nella Divina Commedia si dirama nel senso letterale, allegorico, morale e anagogico. Dante, colui il quale ha giudicato tutto il mondo passato e a lui coevo, ci espone anche le proprie fragilità in un percorso che attraversa affanni della vita con accanto il suo punto di riferimento, Virgilio, il poeta che con la sua arte retorica gli dona consolazione.

I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio
amor mi mosse, che mi fa parlare.

Beatrice, donna beata e bella, i cui occhi erano più luminosi delle stelle, pone la richiesta di aiuto, con questi versi del II canto dell’Inferno [Inf. II, 70–72] adottando un linguaggio tale che la voce è incisiva come lama. Parola, coraggio, amore.

Nella scenografia naturale delle Grotte di Castellana, una fulgidissima sfera bianca viene calata lentamente verso gli spettatori ed i dannati [Canto XXXIV- La discesa al centro della terra] e si accende mentre dalla grotta si solleva Beatrice vestita di bianco, a donare un’immagine paradisiaca alla Grave.

Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d'alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

La dannazione viene tradotta in impressioni attraverso occhi, orecchie, cuore ed un linguaggio scritto, suonato, dipinto, danzato, urlato.

Si mostra pubblicamente sfidando le diverse attitudini culturali.

Le anime condannate sfioreranno, redarguiranno e guideranno durante tutto lo spettacolo, fino a creare un legame tra pubblico e performer, palesato, nel finale, nel reciproco scambio di applausi tra pubblico e teatranti.

Nessun timore, nessun acerrimo giudizio perdura all’oblio. Beatrice, donna amata e desiderata, un faro mandato ad illuminare l’inferno dell’uomo, è creatura angelica inviata da Dio stesso sulla terra, a prosciugar paure ed indicare al genere umano la via della salvezza seguendo la Luce.