C'era una volta la verità. Finché, a un certo punto, iniziò a sembrare che non ci fosse più.

Nel 2016 gli Oxford Dictionaries insignirono del titolo di “Parola dell'anno” il lessema post-truth, entrato di diritto nel linguaggio comune a indicare “tutte quelle circostanze nelle quali i fatti oggettivi hanno una minore influenza nella formazione e nell'orientamento dell'opinione pubblica rispetto al ricorso alle emozioni e alle credenze personali”; “post-verità” viene generalmente tradotta l'espressione nella nostra lingua, anche se forse ciò cui essa di fatto rimanda è una dimensione che si colloca ben “oltre” la verità e non semplicemente “dopo” di essa.

Quello della post-truth non è un fenomeno esclusivo dei nostri tempi. La storia insegna come già gli antichi fossero dei veri e propri maestri nell'arte della manipolazione della realtà, nell'abile orchestrazione di falsità intenzionalmente dirette a influenzare il sentire delle masse, a dirottarne l'attenzione, a catturarne il consenso; i nostri più diretti antenati a Roma e in Grecia ben conoscevano la calunnia e la delazione quali formidabili strumenti di screditamento di nemici e avversari; per non parlare della pratica specificamente ateniese dell'ostracismo che consisteva nell'incidere su un pezzo di coccio (detto appunto ostrakon) il nome di chi si riteneva rappresentasse un pericolo per le istituzioni democratiche e si intendeva allontanare fisicamente dalla città, pratica che, inizialmente istituita allo scopo di proteggere la polis dalla minaccia della tirannide, si trasformò a tutti gli effetti in una potentissima arma di lotta politica. Ciò che, invece, è palesemente esclusivo dei nostri tempi sono piuttosto le proporzioni straordinarie assunte da questo fenomeno che, favorito e agevolato dal costante intensificarsi del processo della globalizzazione, dall'imperante digitalizzazione di qualunque forma di informazione, dall'indiscriminato moltiplicarsi degli attori stessi di questa informazione digitalizzata e dal suo vorticoso diffondersi ha finito per infiltrarsi e permeare in forme a dir poco capillari il tessuto delle nostre società.

Allo stato attuale delle cose è difficile prevedere se il sipario si alzerà davvero sulla scena di questo 56° Festival della Drammaturgia Antica. Di sicuro c'è che le tematiche sulle quali le tre opere selezionate (in maniera quasi tragicamente profetica) invitano a riflettere, rivelano oggi più che in altre circostanze la loro assoluta modernità; nell'emergenza generalizzata in cui versa attualmente il nostro Paese, nell'anarchia narrativa che vede il continuo accavallarsi e rincorrersi di notizie che si smentiscono e si contraddicono a vicenda, nella reale difficoltà di comprendere a chi e a cosa credere, risuona ancora più forte il monito che viene dal passato, il suo stringente richiamo all'urgenza che della Verità si torni tutti a farsi responsabilmente carico.

Euripide scrisse le Baccanti tra il 407 e il 406 a.C., alla fine della sua carriera e della sua vita, nella Macedonia del re Archelao, lontano dalla città di Atene che - proprio come lui - si stava avviando verso la conclusione della sua gloriosa parabola; e proprio contro quell'insuccesso, contro l'esito disastroso della guerra, contro il tracollo vergognoso della democrazia il drammaturgo tuonava nei versi del suo ultimo capolavoro attraverso la voce di Dioniso. Un Dioniso misterioso e sfuggente, seduttivo e perturbante nell'aspetto, che ammalia e incanta con i lunghi riccioli biondi e la pelle candida, che confonde i tratti dei sessi, che è di certo uomo, ma è anche un po' donna; un Dioniso dotato di un potere ambiguo e indecifrabile, benedetto dispensatore di pace estatica per coloro che lo riconoscono e lo accolgono, e insieme castigatore tremendo che instilla il germe del delirio più violento e sanguinario in chi rifiuta di sottomettersi al suo dominio.

Un Dioniso che ha svestito i panni immortali per meglio rivelare la propria divinità, che si mostra docile e remissivo, ma che nasconde un'indole crudele e terribilmente subdola, imperscrutabile nei pensieri, imprevedibile nell'agire. È giunto a Tebe per punire le sorelle della madre vergognosamente coperta d'onta, per rivendicare la propria nascita da Semele e da Zeus in persona, per piegare finalmente al proprio culto anche la sua terra; nondimeno, per mano di queste Baccanti involontarie, inconsapevolmente travolte dalla follia ebbra e lasciva dei suoi riti, sono le colpe ancor più gravi degli uomini che il dio intende colpire, le macroscopiche responsabilità di una politica quanto mai ottusa e inadeguata. In un concitato susseguirsi di eventi straordinari e di dialoghi serrati che offuscano i confini tra realtà e illusione, tra retorica e magia, che minano ogni certezza su cosa sia sapienza e cosa no, Dioniso scatena incontenibile la propria ferocia contro il re Cadmo e il giovane nipote Penteo: dell'uno smaschera l'ipocrisia di una devozione ostentata e suggerita al solo scopo di salvare le apparenze, di scongiurare ogni ritorsione; nell'altro, vergognosamente travestito da Menade e indegnamente privato della propria identità sessuale, delegittima e condanna la doppiezza di un potere maschile che del femmineo si è sempre tacitamente nutrito, pur non avendo mai cessato di ritrarlo quale emblema di ogni disordine, di ogni intemperanza, di ogni rovina.

L'Ifigenia in Tauride rientra, invece, nel gruppo di opere che Euripide concepì nell'ottica di un radicale revisionismo della materia troiana; realizzata tra il 414 e il 412 a.C., negli anni cruciali della guerra peloponnesiaca che videro il conflitto spostarsi sul fronte siciliano, essa sferrava un violentissimo attacco alla narrazione che nell'Orestea Eschilo aveva intessuto dei medesimi episodi mitologici e che del miracolo democratico ateniese era divenuta il principale manifesto celebrativo.

Anche qui - come già nelle Baccanti - realtà inaspettate emergono a mano a mano che la vicenda si dipana, tra insospettabili inversioni di ruoli e continui rivolgimenti. Nulla ha conservato questa Ifigenia della vergine indifesa e innocente che tutti credono sia stata un tempo immolata dalle mani del padre Agamennone per consentire la partenza delle navi achee alla volta di Troia; furtivamente sostituita da Artemide con una cerva e trasportata in una regione lontana sulle coste del mar Nero, si è fatta ella stessa fredda esecutrice degli orrendi sacrifici umani che la dea impone vengano eseguiti ai danni di ogni straniero; nulla dell'Oreste che qui approda fa pensare a un uomo legittimamente assolto dalla terribile colpa di aver ucciso la propria madre e finalmente pacificato; profondamente turbato e inquieto, egli continua a essere tormentato dalle Erinni che al più impuro degli assassini non concedono tregua alcuna. Nessun racconto edificante sembrava ormai poter sopravvivere, mentre si sgretolava ogni certezza e vacillava ogni fiducia in quella tradizione dominante che il drammaturgo minava duramente nelle sue fondamenta: compromessa e avvelenata ne appariva la natura, menzogneri e indicibilmente carichi di orrore i suoi presupposti.

Ancora più indietro nel tempo vanno collocate le Nuvole di Aristofane e precisamente nell'anno 423 a.C.; la guerra durava già da quasi un decennio, ma vivissimo era il fermento culturale che agitava la città di Atene, epocale la rivoluzione del pensiero e del linguaggio di cui essa si andava facendo protagonista e da cui il commediografo non mancò di prendere apertamente le distanze.

Attraverso la vicenda del contadino Strepsiade - che nella finzione scenica si ritrova prima perseguitato dai creditori e poi malmenato da quel figlio scapestrato che aveva fatto educare nel Pensatoio dei nuovi filosofi/cialtroni, maestri nell'arte della parola efficace, seppur non giusta - Aristofane si rivolgeva con piglio severo ai suoi concittadini. Convinto tradizionalista, egli additava nelle aeree divinità che davano il nome alla commedia e nei loro adepti l'incarnazione degli eccessi cui retorica e sofistica potevano giungere, la degenerazione culturale cui esse rischiavano di dare origine; indicava altresì nella rozzezza del vecchio protagonista l'insulso utilitarismo che ormai segnava il sentire e l'agire di tanti Ateniesi, il loro individualismo, la loro bieca limitatezza. Non si trattava tanto di demonizzare il nuovo, quanto piuttosto di mostrare l'urgenza che si rivalutassero l'antica sobrietà e un rigore morale ormai dimenticato, affinché si imparasse a gestire il nuovo in maniera assolutamente più capace, più costruttiva, più consapevole.