La vita reale è per chi non sa fare di meglio.

(A Rainy Day In New York)

Per il mondo greco antico le cose ultime erano quelle compiute, quelle perfette, più cariche di senso. Il telos appare non solo il fine ultimo ma il senso interno delle cose, la loro natura essenziale che conduce l’archè, il principio dell’apparire, alla sua completa realizzazione.

Woody stesso ha più volte richiamato il senso tragicomico greco come nella Dea dell’amore e in Match Point. Nella sua ultima opera possiamo cogliere la conclusione di un lungo percorso artistico. Conclusione in senso greco appunto in quanto si tratta di un film assolutamente pulito e lucido nella sua chiara struttura e nelle sue forme compiute e coerenti. Possiamo paragonarlo ad un arabesco semplice, ad una musica in cui il contrappunto è vicinissimo tra due temi per poi allargarsi ed allontanarsi fino a lasciar spazio ad un nuovo tema che si avvicina al primo e con il quale alla fine si sovrappone. Non vi è più traccia del Woody nevrotico e caotico, né della New York inconcludente e schizofrenica di tanti suoi film.

Potrà ancora essere un mito New York quando non avremo più il suo massimo cantore? Quali volti potrà ancora assumere dopo quest’ultimo del tutto inedito di una New York intima, piovosa, ideale? In questo lavoro l’istanza “barocca” di Woody, con il suo culto dell’asimmetria e del caso, trova un perfetto e nuovo equilibrio con la sua anima sentimentale e ideale, spesso velata, repressa, nascosta, mascherata, equivocata, “giocata di sponda” dentro il gorgo esistenziale della postmodernità, e qui invece messa in scena per la prima volta in modo piano, diretto, trasparente, monistico.

Un film fondato su una meccanica classica di affinità elettive, concordanze e discordanze di monadi, dove il concetto centrale è quello di riconoscimento e di disvelamento della natura in opera. Non è possibile cogliere differenze fra il tessuto narrativo, la struttura e il ciclo semantico-ermeneutico. Siamo di fronte ad un’opera unitaria e unita, indivisa. Gatsby segue la sua fidanzata Ashleigh nella sua New York per accompagnarla nell’importante intervista ad un celebre regista che deve realizzare per il giornale del suo college in una piccola città dell’Arizona. Già all’inizio c’è tutta la dinamica differenziale che evolverà fino alla deflagrazione e risoluzione finale: la New York di Gatsby è contraria e opposta alla New York non conosciuta ma già amata da Ashleigh, quella delle celebrità e del jet set versus la Metropoli dei piano bar, delle canzoni classiche, dei locali retrò. Due ritmi e due imprinting differenti la cui distanza crescerà progressivamente. Ashleigh conosce prima la Metropoli che l’allontanerà dal suo fidanzato con le sue personalità fragili e isteriche, l’assenza di riferimenti dentro la recita sociale-massmediale che svuota e massifica ogni interiorità. Conoscendola prima le è impedito conoscere e apprezzare l’altra New York, quella interiore, poetica, fatta di dettagli e luoghi speciali, che richiede un ritmo differente, un tempo animico, non manageriale.

Una differenza rizomatica fra “uso” della Metropoli nel suo mito sociale (Ashleigh) e sua scoperta negli aspetti musicali e lirici del suo mito in Gasby che cerca una sua musica e chi sappia ascoltarla. Ashleigh cerca invece un’avventura da riportare a casa e si diverte a recitare se stessa in una recita globale. Il riconoscimento quale processo graduale attraversa lui ma non lei che resta se stessa e per questo attrae, nella sua rozza innocenza, chi è prigioniero dei ruoli e della finzione.

Attori consumati che cedono a chi li venera in quanto non credono in se stessi. Ashleigh non ha evoluzione tanto quanto Shannon che da sempre ama Gatsby. Non a caso appare contesto emblematico, simbolico, che si ritrovino su di un set filmico improvvisato da un amico comune e “debbano” baciarsi come se solo dentro e attraverso la finzione possa disvelarsi la necessità. Shannon lascia spazio al riappropriarsi del mito della città da parte di Gatsby, che suona e canta a casa sua, mentre lei lo ascolta in silenzio, Musa al contrario. Sarà la scoperta del segreto di vita della madre che libererà Gatsby da ogni desiderio di ritorno in Arizona e questo accade dentro una notta in cui il giovane gioca d’azzardo vittoriosamente ma quasi sovra-pensiero, come se il poker fosse una forma di mantica, di indagine sul destino. Lei sprofonda nella superficie vasta della New York che recita se stessa mentre lui si fa asceta solitario di una New York che si svela a pochi complici, anti-teatrale, che chiede ancora di essere amata, creduta, incorporata, in modo sempre nuovo e sempre originario.

Altro sfasamento illuminante quando si lasciano durante la recita più romantica: il giro in carrozza attorno a Central Park, dove la finzione interiore non regge alla finzione esteriore! E così di fronte ad un vecchio e affascinante orologio di Central Park i due ritrovati semi-amanti, l’altra coppia che si riconosce della e nella storia, entrambi l’Anteros dell’altro, incarneranno il compimento del sentimento nella sua concordanza con il tempo e lo spazio. Un’ultima metanoia, un ultimo kairos che appare proprio mentre ricomincia a piovere. Opera sommamente classica, greca, limpida dove danza e suona il “tempo altro” del cuore e la sua necessità di riconoscimento.