Inconfondibile e travolgente il rock-blues in bisiacco della band goriziana: uno spaccato dissacrante di vita di provincia tra satira, AC/DC e il dialetto come 'faro sull'identità.

Marongiu & I Sporcaccioni, partiamo da queste due entità.

Claudio Marongiu è il fondatore ed autore delle canzoni de I Sporcaccioni. Senza un gruppo però non andrebbe da nessuna parte, essendo egli cantante autodidatta che non sa leggere la musica né suonare alcuno strumento (per pigrizia, non per disinteresse). È altresì vero che con gli anni i musicisti intorno a lui sono cambiati, gli hobbisti della domenica non erano più sufficienti e allora li ho sostituiti sempre con degli hobbisti, ma un po’ più motivati.

Perché la scelta di cantare in dialetto bisiacco?

Sono stato un pessimo studente e i genitori mi hanno forzato ad accettare lavori di fatica che spesso non ero in grado di svolgere. Turnazioni notturne in una fabbrica di valvole, un’altra di bulloni, brevi e disastrose parentesi nel mondo delle Poste, un po’ di tutto e molto male. Da questo marasma di esperienze però è nata un’esigenza sincera di scrivere canzoni che non fossero né il solito diarietto da studente universitario al primo anno, né un’adesione faziosa al terribile mondo delle pro loco. In sostanza, avevo intuito di poter essere più credibile – e felice – urlando nel mio dialetto che in modalità espressive trite e alienate.

C’è anche un legame speciale con la Sardegna…

Mio padre è di origini sarde ma culturalmente milanese, io ci sono stato solo nel 1993, dunque per me la Sardegna va acquistando quel senso mitologico che deve aver preso per certi ebrei ashkenaziti la terra di Israele vista e idealizzata dal Nord Europa. Sono dunque aperto a qualsiasi delusione, illusione o visione a riguardo.

È come una tabula rasa su cui riversare le mie fantasie letterarie. Di recente ho scoperto alcuni artisti sardi in carne ed ossa come Joe Perrino, una voce potentissima filtrata da una tristezza per assurdo Mitteleuropea.

Quali sono i gruppi senza i quali la vostra band non sarebbe mai nata?

Scartabellando fra i cd in offerta al fu Mercatone Zeta, a quindici anni portai a casa Powerage degli AC/DC e tutto iniziò. Ero completamente estraneo a un certo senso di tragressione, a casa si ascoltava Radio Birikina, ma quel suono di chitarre grandissimo – nel senso di una vastità psicoacustica – che arrivava dall’Australia mi colpì al cuore.

Ora però sto cercando di unire Radio Birikina con gli AC/DC, dire pop non è spregiativo ed apprendere che quel pop italiano era confezionato benissimo e beneficiava di interpreti di altissima levatura è una piacevole riscoperta.

Il vostro rock blues e i testi sono dissacranti e incendiari, come nasce la vostra scrittura?

Non c’è un ordine preciso, dipende da brano a brano. Se prendiamo, ad esempio, Leccar la mona, avevo in testa da anni questa melodia e un amico (Paolo) ne ha trascritto gli accordi dando ordine all’idea. Me li ha fatti sentire e il testo l’ho scritto in pochi minuti. I soliti noti l’hanno subito tacciato di banalità, ma per me quella musica era perfetta per celebrare il cunnilingus (che penso sia una cosa serissima che va fatta ove vi siano i presupposti).

Altre volte arriva prima il testo e quando succede in genere è più melanconico rispetto a quando ho in testa una melodia o un riff allegro prima delle parole.

Dal 2004 ad oggi sul vostro cammino si sono aggiunti importanti professionisti come Antonio Gramentieri e Franco Beat. Come sono nate queste sinergie?

Antonio è un generoso e gli piacciono le sfide, sicché penso che l’idea di prendere (nel caso nostro) un gruppo incompiuto – ma con una poetica e un potenziale a lui congeniali – e mettere le proprie conoscenze a disposizione del progetto, l’abbia in una certa misura divertito. Serba anche una visione pura della musica e dell’arte, sicché se ha detto di “sì” agli Sporcaccioni vi assicuro che non l’ha fatto per questioni venali, così come da parte nostra non c’è stato alcun calcolo di sfruttamento della sua rotonda immagine. Ha riscattato la nostra piccola carriera e rilanciato un gruppo che nonostante si esibisse regolarmente da decenni, non era ancora riuscito a registrare un buon disco.

Franco Beat è stato il fonico di studio dei nostri due dischi prodotti da Antonio e aldilà della sua conclamata erotomania, lavora in perfetta simbiosi con Antonio, così come il proprietario dello studio L’Amor Mio Non Muore che è il pacioso Roberto Villa.

Muli de paese è il vostro terzo disco, come si colloca all’interno della vostra discografia?

È più una raccolta di canzoni che un disco in senso concettuale. Abbiamo registrato senza particolari pressioni, ma quel che davvero ci aspettiamo è di suonare anche nelle piazze della nostra regione. Abbiamo fatto esperienza su palchi veneti importanti aprendo concerti di artisti come Catarrhal Noise, John See a Day ed Herman Medrano & Kalibro - imparando da loro parte del mestiere - per cui cosa aspettate a chiamarci, matusa della politica locale?

Mulo de paese, perché questo nome?

In bisiacarìa per intendere ‘ragazzo’ si dice ‘mulo’. Mulo lo si usa in particolare rivolgendosi all’adolescente, che è il nostro soggetto principale. Ora che la distanza anagrafica – e di pathos – fra me e questo periodo così complesso eppure sommamente banale si sta facendo considerevole (vado per i quarant'anni e non per i trenta come il protagonista della canzone!), ho l’ardire di poterlo spiegare a chi si accinge ad affrontarlo (ovviamente senza alcuna pretesa pedagogica). Il mulo è un incrocio dell’asino e quale altro animale, refrattario agli insegnamenti, assomiglia così tanto al teenager?

Siete ben noti per i vostri irriverenti live, come costruite i vostri concerti?

I Sporcaccioni prima maniera erano totale improvvisazione in un senso allegramente deleterio. Strumenti scordati, stonature intollerabili, cacofonie involontarie ma la grande energia di quella gioventù che passa una volta sola. Ora quegli accessi ormonali sono indubbiamente in calo, ma la musica è cresciuta di qualità. E c’è tanto amore per le canzoni. Nella formazione attuale tutti ci credono, a queste canzoni.

Si decide una scaletta, alcuni brani restano piuttosto immutabili nella struttura e nelle dinamiche, mentre su altri – due o tre a serata – ci permettiamo quelle scorribande nell’Altrove musicale che i capisaldi del rock abitano ogni sera. A volte il gioco riesce, altre è un fallimento da cui si impara pur qualcosa.

Inevitabile: progetti per il futuro?

Se sbandierare le proprie vicende personali in una sorta di confessionale è uno sport fin troppo praticato, non posso negare che alcune tragedie che mi sono occorse di recente mi stanno portando soltanto a desiderare di fare della buona musica – o intrattenimento di qualità che dir si voglia – ad ampliare la tipologia dei nostri fan e a suonare un po’ dovunque in Italia, perché non credo affatto che il dialetto sia un limite ma anzi, un prezioso faro sull’identità.