Un tuffo in un festival tutto al femminile, giusto per non farsi dimenticare. Scrupolo forse eccessivo: “Civitanova Danza”, rassegna gestita dal circuito marchigiano Amat e ideata da Gilberto Santini, ha sempre elargito anteprime, corsi tenuti dai più alti vertici del Balletto del Teatro alla Scala, dell’Opéra di Parigi e da coreografi moderni famosi. Eppure, non ha voluto mancare all’appuntamento con il suo pubblico e alla sua ventisettesima edizione. Stringendo i denti, tra decreti di distanziamento in platea e in scena, è riuscito a donarci una vetrina sulla grande diversità esistente nel gesto e nella composizione muliebri.

Quattro spettacoli, distribuiti a giorni alterni (dal 5 all’11 agosto) hanno quasi sempre riempito i duecento posti “ministeriali” del Teatro Rossini di Civitanova Marche, che ne contiene oltre ottocento. A battezzare il cameo tutto rosa è stata scelta Silvia Gribaudi e il suo pluripremiato Graces che dal 2018, data del debutto, se ne va in giro per il mondo mietendo consensi e sorrisi. Sì perché la torinese Gribaudi esplora da una decina di anni l’identità femminile, i suoi stereotipi, le sue inconfessate idiosincrasie, accarezzando soprattutto quel lato comico che non è certo usuale tra le donne-creatrici di danza. Proprio a “Civitanova Danza” debuttò con R. osa- 10 esercizi per nuovi virtuosismi di danza, spettacolo dedicato a Claudia Marsicano, una eccezionale performer dal corpo vistosamente massiccio ma non meno agile ed espressivo che fece crollare, su di una musica facile facile, ogni preconcetto sull’ideale corpo muliebre nella danza contemporanea.

Nel 2016, quell’exploit fece sfiorare alla Gribaudi il Premio Ubu. Due anni dopo la sua poetica, rafforzata dalla collaborazione con Matteo Maffesanti (regista e video-maker), ha incluso con più convinzione il genere maschile. Sicché Graces, ispirato alle Tre Grazie nude, abbracciate e scolpite in un unico blocco di marmo, a grandezza naturale, da Antonio Canova e in due versioni (1814-1817) sono state idealmente consegnate a tre interpreti maschili, Siro Guglielmi, Matteo Marchesi e Andrea Rampazzo, che entrano in scena in pantaloni e calzini e ne escono a piedi nudi e slip dorati. Tra loro si inserisce ben presto la coreografa che fa da cicerone e imbonitrice, flirtando non tanto con i nomi delle tre meraviglie neoclassiche canoviane, ma con ciò che i loro nomi significano: splendore (Aglaia), gioia e letizia (Eufrosine) e prosperità (Talia). La Gribaudi in costume nero, quasi da bagno, non fa che ringraziare il pubblico - d’altra parte i suoi salamelecchi hanno a che fare con il titolo della pièce - incitarlo a trovare sinonimi di quella gaudente e ricca elargizione di beni che le "Grazie" emanano, mentre le luci salgono e scendono in controluce.

Poco alla volta i tre “graziati” cominciano a mostrare i loro virtuosismi accademici su musiche varie che non escludono un ben noto valzer di Strauss. Il tempo è sospeso; l’allegria coinvolge e alla fine, ripentendosi, un poco immelanconisce. Per di più il distanziamento preclude un vero contatto dei corpi e lo spettacolo, fermo da un po’, causa Covid-19, non è ancora in piena forma. Dopo saltelli da cavallo all’unisono, andirivieni di decorazioni poste nei punti meno eleganti del corpo, si finisce comunque in musical. Ciò che abbiamo maggiormente ammirato sono la gestualità ammiccante e subdola della coreografa-interprete, quel suo schiacciare l’occhiolino al pubblico perché si faccia partecipe, quel suo vero-finto non saper cosa fare, e quel suo modo di gestire il suo stesso corpo con disinvolta euforia, mentre il potenziale virtuosistico maschile a breve sarà perfetto.

Il secondo spettacolo del “Quartetto in rosa” è stato tutto consegnato alla ben nota Carolyn Carlson, o meglio a due dei suoi più fedeli interpreti italiani - Sara Orselli e Riccardo Meneghini - preceduti da Guillaume Perret, un bravo sassofonista a cui la Carolyn ha assegnato un virtuosistico assolo introduttivo, oltre a volerlo come musicista dei due primi pezzi danzati. In The Seventh Woman, variante del successivo The Seventh Man, e dedicato alla flessuosa maestria della Orselli, costei se ne sta per lo più sur place sotto un cono di luce dal quale le sue lunghe braccia e i non meno lunghi capelli, nelle dilatazioni fisiche, vorrebbero scappare. L’unica differenza, rispetto al festival “Eden per uno spettatore” di Tanz/Bozen-Bolzano-Danza dove quest’assolo è già stato presentato (in forma ridotta, a nostra memoria), è che dalla graticciata pendono tre sedie cariche di giacche e camice. Serviranno al bravissimo Meneghini, nell’ultima parte del suo assolo, quando incerto tra continuare ad indossare una camicia rossa, o una giacca beige, finirà per calpestare tutto il vestiario, restandosene seduto e in attesa di una decisione che non si sa se verrà.

Ispirato alla poesia Il settimo di Attila József (1905-1937), tormentato poeta della rivoluzione ungherese, morto forse suicida a soli 32 anni, The Seventh Man, coinvolge il suo interprete a schiena nuda in un saliscendi di tensione, assurda velocità, e stasi. L’abissale groviglio degli ostacoli esistenziali dovrebbero essere tutti lì in quel suo dare e ricevere assai poco; nella tempesta temporale, incipit del suo racconto fisico e nella temperatura calorica a volte bollente del sax di Perret che fa anche capolino da una quinta. I movimenti non sono più a scatti, guardinghi, e spezzati come nella prima gestualità della Carlson. Anche qui sono lunghi, e le braccia sembrano voler avvicinare il mondo ostile. Se il finale indeciso, deluso, inerme è assai nitido nella composizione, la pletora di gesti che conducono alla conclusione inciampa nella bellezza/perfezione dell’interprete che non dà sfoggio di sé, e con naturalezza si propone al pubblico, quasi non avesse faticato, o non si fosse mosso affatto… Se Carolyn eccede, forse nella foga di farci conoscere attraverso questi due assoli la potenza e la sensibilità di Attila József, poeta non molto conosciuto, il suo interprete brilla in ogni caso e con superba nonchalance.

La “Serata Carlson” riporta in auge anche Mandala (2010), che almeno in Italia fu sempre interpretato dalla Orselli. Dentro e fuori quell’ensō, quel cerchio di fiori, quel drappo rettangolare bianco steso al centro si concentra il Buddismo Zen di cui la Carlson è una adepta. Disegnare un ensō, fa parte dell’arte pittorica Zen, e muove chi lo disegna verso l’illuminazione: un’osmosi con l’universo, qui veicolata dai movimenti per lo più rotatori e dalla musica, questa volta di Michael Gordon (Weather, part 1). Mentre gira, fuori del cerchio, l’impeccabile danzatrice apre più volte le braccia, ma le protende anche verso il cielo. La musica è in tumulto e si acquieta quando lei rientra nel mandala. Ormai ci ha condotto verso una spiritualità che potrebbe anche non essere la nostra, e dunque non coinvolgerci più di tanto, ma questa volta con parsimonia gestuale. Nel finale la musica, sempre più fioca, diventa un vento e lei che più volte aveva posto le sue mani sul volto, si ferma.

Entrano invece dalla platea ancora illuminata, con passo leggero e calibrato al tempo di un battito sonoro, cinque misteriosi personaggi vestiti di un saio nero, stretto alla cintola, e con cappuccio che ne nasconde il volto. Questi protagonisti (tre danzatrici e due danzatori) di Verso la specie di Claudia Castellucci potrebbero essere monaci; fantasmi di un mondo arcaico che giunge da molto lontano. Di certo sono i portavoce dello spettacolo più originale ed appassionante di “Civitanova Danza n° 27”. Salgono in scena senza scomporsi e qui, tra drappi beige scuro tendente al giallo, sono appesi tre personaggi non facilmente riconoscibili. Si tratta del filosofo, matematico e presbitero russo Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) dall’intensa attività dedicata anche all’arte (spazio, tempo, ritmo, iconografia), ma riemersa dagli archivi del KGB solo nel 1991; dell’ex-ginnasta rumena Nadia Comăneci, considerata tra le maggiori atlete del XX secolo, e infine del compositore Olivier Messiaen (1908-1992).

Tutti e tre dirimono l’attenzione verso gli studi, la tempra intellettuale, ma non solo, e le attuali predilezioni musicali di Claudia Castellucci: coreografa, didatta, drammaturga, fondatrice, nel 1981, assieme al fratello Romeo, a Chiara e Paolo Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, ora divenuta solo Socìetas per i diversi sviluppi artistici intrapresi dai suoi fondatori. A Claudia, il 16 ottobre la Biennale Danza di Venezia consegnerà il “Leone d’Argento 2020”, mentre la sua Compagnia interpreterà Fisica dell’aspra comunione proprio sul Catalogue d'oiseaux (Catalogo di uccelli), composto per pianoforte (1956-1958) da Messiaen. Gli altri ritratti sono meno legati all’attività contingente dell’autrice, ma semmai in essa permanenti. Verso la specie si dispiega nello spazio con capillare attenzione; le braccia allargate dell’inizio e poi allungate verso il pubblico, finiscono per concentrare il gruppo al centro e al loro prendersi per mano. Levatisi i cappucci, i cinque rivelano le loro diverse personalità avvolti in una musica (pertinente e bellissima di Stefano Bartolini), costruita su alcuni canoni ispirati alla metrica della poesia greca ma anche al movimento dei cavalli.

Nessun didascalico asservimento dei danzatori in quei piccoli saltelli da puledri all’unisono; figuriamoci in quella gestualità che li porta ad unire le braccia a punta chinandosi verso il suolo per formare triangoli misteriosi. La coreografia, astratta, rimanda a gesti che potrebbero essere di antica e contemporanea origine: girotondi, piedi calzati in scarponcini che si piegano solo da un lato, obbligando chi guarda a non perdere proprio nulla del complesso, ma ipnotico, avanzare verso un confronto di coppia a tu per tu, verso un tendere le braccia come fucili, e uno stendersi a terra in proscenio, il volto offerto al pubblico. La musica è dentro i corpi e ogni virtuosismo tecnico è abilmente nascosto, ma quanta precisione nell’improvviso apparire di un telo simile a una bandiera double-face, teso come fosse un panno del bucato, piegato e ripiegato, con strisce lunghe che cadono e vengono rigettate dietro o avanti. Verso la specie è un titolo interpretabile, ma ognuno può districarsi come preferisce nei suoi significati. Qui contano gli atti, la costruzione, e quel magnifico e improvviso port de bras finale di un interprete maschile che nasce dal nulla e lascia il segno. La grazia e la delicatezza che furono della Comăneci non appartengono ancora a tutti gli interpreti: per raggiungerle occorrono anni di studio e lavoro; unanimi, invece, e risolti sono quei significativi momenti di stasi e passaggio tra un gesto e l’altro, necessari per far “vivere” la danza, anzi “il ballo”, con naturale eleganza, in un “qui e ora” che lascia sbalorditi.

Introdotto da un ancora afasico studio (dal titolo Pedro) di Laura Gazzani, giovane danzatrice locale da incoraggiare, Verso la specie è stato senza se e senza ma lo spettacolo più accattivante e perciò più apprezzato dal pubblico. Molti spettatori si sono divertiti grazie al giocoso I Bislacchi di Monica Casadei ma come intrattenimento puro e ben danzato. Con questo “omaggio a Fellini” su musiche di Nino Rota, tratte soprattutto da La strada, si è concluso in levare il “Quartetto rosa” del festival. Appena ripreso a Spalato, e in corsa non si sa verso dove, I Bislacchi è una sorta di “cult ballet” per la compagnia Artemis Danza, diretta dalla Casadei con immutata vitalità dal 1997: pensate che questo spettacolo felliniano, nato in Messico a Guadalajara nel 2008, non ha mai smesso di girare il mondo, talvolta accompagnato da un filmato con i disegni animati dello stesso regista, narrati da Tonino Guerra. Richiesto ovunque, e interpretato dai molti danzatori che si sono avvicendati nelle file della compagnia (ora la sua sede è nella città di Parma), la pièce dà prova di una capacità imprenditoriale della danza italiana che finalmente (anche Silvia Gribaudi insegna) sembra aver preso le ali.

La Casadei, di solito, porta in cambio ai suoi ospiti (con Traviata, Tosca X, Il Barbiere di Siviglia, in forma danzata e tante altre pièces) quell’italianità di cui I Bislacchi con le sue luci e i suoi costumi super-colorati è un esempio semplice, ormai forse troppo, ma radioso. Acrobati vestiti in lungo e di tutto punto, e sciantose in tutù/costume da bagno e cuffie fiorite si incastrano e si inarcano in un capriccio davvero bislacco. Forse in questo “circo” che tante volte ripete la struggente musica dell’incontro tra Gelsomina e Il Matto, la coreografa - che ricorda di essere stata introdotta da bambina, sotto un tendone circense da Giulietta Masina - ha trasferito il nomadismo della sua stessa Compagnia. Si parte da un triplice Ginger e Fred (i danzatori sono sei) con preziosi passi a due e assoli rotanti a corolla, poi in una sorta di seconda parte senza soluzione di continuità si continua ai bagni di Amarcord, spruzzati di giochi d’ombra, di colore e di un insidioso profumo alla “Gradisca”.