La recente stampa vinilica di silenziosa fattura, nonché la prematura scomparsa del leader Mark Hollis, avvenuta nel febbraio del 2019, hanno posto nuovamente all'attenzione di un pubblico sempre più consapevole la saga dei Talk Talk, fra i più sottostimati gruppi provenienti dai controversi anni '80 che pure, potrebbero vantare simili meraviglie.

Dopo aver conosciuto il successo commerciale anche in Italia (fra passaggi televisivi, una tappa a San Remo nel 1986 e tour organizzati dall'influente promoter David Zard), la band inglese invertì quella che sembrava una placida rotta verso un irresistibile pop, optando per delle scure atmosfere underground ai margini dell'avanguardia jazz, con due album che non dovrebbero mancare nella collezione di alcun vero appassionato di cuore e mente aperti.

Spirit of Eden arrivò dopo un prolungato periodo di isolamento necessario all'ispirazione ed è del 1988, Laughing Stock, invece, viene pubblicato tre anni dopo ed oltre ad essere il loro capitolo finale, è anche il disco che approfondiamo, perché sintetizza in maniera esemplare le destrutturazioni messe in atto nel precedente, coraggioso atto di consapevolezza di una nuova identità. Ne scaturisce un fitto macramè di melodie che trasporta l'ascoltatore in uno spazio astratto ed egualmente etereo, che non è più neanche da ascrivere al gruppo, ma piuttosto di chiunque sia capace di raggiungerlo per il tempo necessario nel farsi avvolgere ed ipnotizzare da questa riformulazione armonica di livello celestiale, totalmente eccentrica rispetto ad ogni paradigma (spesso in pailettes) dell'epoca. Organo, piano, chitarre e batteria ora vanno a braccetto e subito dopo deflagrano in un mood scuro e fluttuante, sorrette da una tromba spesso in sordina e una calibrata sezione d'archi. Guizzi sonori che richiamano le atmosfere conosciute nel Miles Davis di In A Silent Way come nelle pagine più belle di David Sylvian, che neanche tanto sorprendentemente, anni dopo li omaggerà nell'intensa Midnight Sun, contenuta nell'album Dead Bees on a Cake del 1999.

È davvero difficile condensare l'esperienza d'ascolto di un lavoro sorretto da tale climax emozionale, in cui la voce di Hollis interviene con parsimonia, ma con toccante e livida sofferenza. Ascension Day segue una linea narrativa amara (“Bet I'll be damned/ Built the debt I turned twos up today", "Kill the bed/ I'll burn on Judgement day”), ma allo stesso tempo sorprendente, suddivisa fra riverberi, sospensioni e coinvolgenti accelerazioni ritmiche. Gli altri cinque brani, poggiati su un impianto musicale scarno ed astratto, rappresentano altrettante preghiere di redenzione e mistero: New Grass, Runeii sono certamente le nostre. Myrrhman, Taphead, After the Flood lo saranno state invece per centinaia di altri, dai Radiohead fino a Steven Wilson dei Porcupine Tree e Joan as Police Woman. La critica li osanna, ma commercialmente è una caporetto.

Dei Talk Talk non sarebbe uscito ufficialmente nient'altro, mentre Hollis dopo aver pubblicato un altro splendido capitolo a suo nome nel 1998 (che quasi fino all'ultimo sarebbe dovuto essere nuovamente accreditato ai Talk Talk con il titolo pressoché definitivo di Mountains of The Moon), l'anno successivo decise di ritirarsi definitivamente dalle scene pubbliche. Qualcuno, più avanti, avrebbe etichettato tutto questo ingegno come Post-Rock, è ancora Hollis a sintetizzare mirabilmente il suo pensiero: “Una nota è meglio di due, e nessuna è meglio di una". Si riferiva ad una musica universale, senza tempo. O meglio di ogni tempo.