Il compositore partenopeo pubblica un intrigante lavoro tra modern-classical, tardo-romanticismo e improvvisazione jazz. Un itinerario tra emozioni e riflessioni, per piano solo ed elettronica.

The Rain of October è il tuo secondo titolo per NovAntiqua, dopo L’ala del silenzio e Debussy, la Cathédrale transfigurée (per Da Vinci Classics): quali differenze ci sono tra questi lavori?

Da un punto di vista meramente musicale forse non sono così tante come sembrerebbe invece suggerire l’apparente diversità fra gli impianti strumentali ed i materiali tematici presenti nei tre lavori: al netto di una plastica melodico–armonico–ritmica che di volta in volta si modella in ragione del diverso contenitore, vi è infatti una linea di coerenza estetica che tutto sommato tratteggia un fil rouge fra i tre album.

Ciò che invece li differenzia molto è la diversa urgenza emotiva che ha caratterizzato le rispettive genesi: L’ala del silenzio è stato un lavoro per piano e quartetto d’archi con il quale, al principiare di una nuova stagione anagrafica (quella dei quarant’anni) mi interrogavo sui temi a me più cari, quali il senso dell’ego e l’opinabilità degli assolutismi, l’amore per le proprie radici e per la natura, la struggente malinconia dei ricordi di infanzia; Debussy: la Cathédrale transfigurée nacque da una improvvisazione spontanea in duo con l’oboe su materiale tematico del grande compositore francese, del quale nel 2018 ricorreva il centenario dalla data di morte. The Rain of October è invece un lavoro la cui esegesi va ricercata nella verità straziante di un anno, il 2019, nel quale per ragioni personali ho conosciuto il punto più basso della mia esistenza di individuo: un autentico pugno nello stomaco che mi è letteralmente esploso dentro, un flusso di scrittura dei brani incredibilmente concentrato in pochissimi giorni; “vomitare” fuori questi brani (mi si passi il termine molto rude) è stato catartico e fondamentale per intraprendere una risalita che, per quanto mai potrà essere scevra dalle cicatrici accumulate, mi ha donato una rinnovata consapevolezza della mia ricerca interiore.

L’album è uscito nel pieno del lockdown: secondo te l’ascolto è stato favorito dall’assenza di vita esterna o pensi che la tua musica necessiti di contatto con “l’altro da sé”?

Mediamente, un ascoltatore interessato al tipo di cose che faccio ha un rapporto con la musica avulso da condizionamenti sociologici. Negli ultimi anni, i dati degli ascolti in streaming che ricevo dalle case discografiche per le quali ho inciso testimoniano un flusso di aficionados (più segnatamente dalla Francia e dal Giappone) che ovviamente giungono alla mia musica attraverso sentieri ben precisi, dettati da una necessità di sfamare un proprio personale gusto e non certo da induzioni pubblicitarie o da circostanze di improvvisa precarietà nelle consuete dinamiche giornaliere. Anzi, direi che sicuramente generi di musica come la mia solitamente necessitino – per essere metabolizzati – di svariati riascolti ripartiti su di un arco temporale vasto, svincolato da contingenze momentanee. È musica alla quale arrivi per una curiosità sensoriale, non la troveresti mai sbattuta ai quattro venti sui social network, abbinata ad una ipotetica foto di me che suono il pianoforte con i piedi scalzi, mentre con l’occhio languido tento di irretire un pubblico femminile con fare da improbabile mandrillo da reparto detersivi di un supermarket.

Rispetto alle precedenti opere, che ti hanno visto in compagnia di Marika Lombardi e del Klangfarben Quartet, The Rain Of October è frutto di una dimensione solitaria: la senti più vicina al tuo mondo espressivo?

Ogni mia composizione nasce da una iniziale suggestione uditiva ben precisa che all’improvviso, dal nulla, si fa spazio nella mia mente; è un barlume di colore in nuce ma dai tratti somatici già nitidi, che fin dalla sua primissima apparizione mi comunica senza alcuna ombra di dubbio quale sia l’organico strumentale verso il quale tale cellula musicale voglia essere indirizzata. In tal senso, posso asserire che non c’è una dimensione nella quale prediligo muovermi, tutto dipende da quale sia l’oggetto in questione. The Rain Of October è indissolubilmente legato al suono del pianoforte, alle sfumature timbriche da esso ottenibili ed alla sua capacità evocativa, per cui non c’era dimensione migliore per questo disco che non fosse quella del piano solo.

Il tuo lavoro tra classica e jazz non è passato inosservato: tra queste due aree musicali prevalgono le differenze o i punti di contatto?

Per quanto mi riguarda, vi sono soltanto punti di contatto. Seguendo le mie congenite inclinazioni, attuare questa contaminazione è sempre stata una operazione assolutamente naturale, in quanto unica modalità che mi ha dato la possibilità in maniera autentica di unire in un’unica forma espressiva non soltanto i due generi musicali che maggiormente ho praticato ed ascoltato, ma anche tutti gli altri stili musicali che ho assorbito lungo tutta la vita, oltre alle altre forme d’arte che da sempre foraggiano la mia creatività: la letteratura, la pittura, il cinema e le discipline scientifico-matematiche, che io considero arti a tutti gli effetti.

Una menzione su NovAntiqua, l’etichetta con cui collabori: il filo conduttore del catalogo sembrano essere le scelte oculate nei contenuti, la ricerca grafica e l’attenzione all’artista.

Nonostante i vertiginosi cambiamenti in atto da una decina d’anni nell’industria discografica, la mia idea di collaborazione fra musicista ed entourage produttivo è ancora intrisa di un romanticismo vecchio stampo; ragion per cui continuo ancora a sostenere che fra le due parti si debba instaurare un rapporto di reciproco affetto, quasi familiare. In questo senso, sono davvero contento di far parte del roster artisti (in compagnia di musicisti di fama internazionale quali Michele Campanella, il Sestetto Stradivari, il duo Martynov/Nikolova ed altri) di questa label così chiaramente distinguibile nel panorama musicale e così vicina alle esigenze dei musicisti, probabilmente perché diretta da ottimi musicisti essi stessi (Mario Sollazzo e Stefano Zanobini).

Dopo anni di attività, pensi di avere un identikit del tuo ascoltatore?

In realtà è un tipo di argomento che non ho mai avuto la curiosità di indagare. Sono una persona di origini semplicissime e tutta la mia esistenza finora è stata incentrata sull’anelito a ritrovare la purezza dei miei anni di infanzia. La musica non è mai attenuta alla sfera del mio egocentrismo, per me ha valore prettamente spirituale. Ho sempre creduto che si possa impazzire soltanto per troppa bellezza o per eccessivo dolore, e spesso la vita esercita il beffardo diritto di presentarci le due cose contestualmente: in tal senso, nulla più della musica secondo me ha il potere di razionalizzare tali emozioni così diametralmente agli antipodi, e condurle magicamente nell’alveo della Meraviglia. Sono cresciuto in campagna, coltivando il culto del silenzio: un numero bastevole di autentici capolavori musicali è già stato scritto da secoli, finché avrò orecchie per ascoltare la voce della Natura la mia musica non sarà necessaria, né a me né tantomeno al prossimo. Fatti salvi questi presupposti, mi riscalda la certezza che chiunque voglia avvicinarsi all’ascolto della mia musica avrà sempre la garanzia assoluta di trovarvi sincerità e spontaneità.