C’è un modo di cantare che possiamo definire “sirenico”. In senso letterale, cioè un modo di cantare unito ad una struttura testuale-musicale tale da riattualizzare il senso greco dell’epifania sirenica, data da un estenuare i sensi in una sorta di ipnosi sonora. Si moriva per indebolimento di fronte al suono delle Sirene. Ci si lasciava consumare. Si moriva per un’inedia data dalla perdita del senso del tempo? Il greco di Omero e di Apollonio Rodio così lascia intendere come se la mente maschile non riuscisse a reagire a un certo tipo di canto, dolcemente ossessionante. Ma la musica non cambia. Mutano gli strumenti ma la magia di quelle sole sette note iscritte nel cosmo non muta mai nell’essenza. Si nasconde, cambia maschera e ritorna. Continuamente. Così anche nelle canzoni melodiche italiane si possono ritrovare carismi propri dell’unica e perenne “canzone sirenica”.

Un Anno d’amore, uscita con Mina nel novembre 1964, testo di Mogol, ebbe notevole successo tanto che ne apparve anche una versione in spagnolo e in turco. Ma la potenza vocale di Mina annullava la sirenicità dei violini e del vibrafono iniziale. Ho scoperto recentemente la bellezza struggente e ipnotica delle cover di un gruppo torinese dal nome incredibilmente magico: i Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo. Un nome che evidentemente mostra aspetti mito-sirenici e nel contempo esistenziali come le loro iper-sireniche reinvenzioni di canzoni come appunto. Un gruppo che fa dell’ermeneutica della riproposizione un’arte raffinata e delicata. Un anno d’amore di Mina e Cuore di Rita Pavone. Vere e proprie re-invenzioni, più che cover. Si avverte subito una grande attenzione e una grande sensibilità musicale e strumentale. Arpeggi di chitarra, ritmo rallentato, percussioni con il frustino e appena accennate nel ritornello, insomma molti piccoli dettagli che potenziano i carismi già sirenici dell’originale.

Ma cos’è una “canzone sirenica”, e come si differenzia dall’ampio raggio delle canzoni struggenti, come quelle di Celentano? In primo luogo è una canzone dove la Voce è femminile e non solo nell’interpretazione fisica ma pure nel racconto musicale. Deve essere un racconto che viene evocato e manifestato da un cuore e da una mente di donna. Questo accade poche volte. In qualche canzone di Gianna Nannini e di Patty Pravo, in Bang Bang e in poche altre. Domina infantilmente il punto di vista maschile nel mondo della canzone. Solo l’esistenzialismo struggente anni Sessanta ha per poco tempo lasciato spazio al riemergere del “sirenico”. E poi si appaiono altri carismi in questo raro “genere”, che non è un genere ma una dimensione mito-poietica: un tempo aionico, sospeso, rallentato e un ritmo mantrico, ciclico, never-ending. Sono canzoni-flusso, quasi senza inizio e senza conclusione in quanto il tema dominante appare del tutto bilanciato con il decorso di base e non c’è un vero climax come non si ravvisa un vero racconto. Tracce, allusioni, uno sfiorarsi. Essenze feline.

Il senso del silenzio e del vuoto dentro la musica che lo vince e lo regge. Un’anno d’amore appare persino sorprendente anche nel testo. Parole sussurrate e seduttive ma da cui traspare una sirenica crudeltà: la voce femminile ossessiona l’uomo assente con l’evocazione dell’anno di passione ora interrotto. Come se lui non potesse essere libero di andarsene. Una celebrazione poetica del vuoto post-passionale ma tutta dal femminile in posizione dominante. Sarà lui a sentire la mancanza, non lei che si identifica con il canto e con un canto spiraliforme, serpentino.

“Un anno” come tempo simbolico, eonico, come se si volesse giocare in tensione dialettica l’atemporalità dell’idea di amore con la misura di un tempo rispetto al quale però la seduzione del canto appare libera e dolcemente tirannica.

La Voce crea una dimensione parallela dove ricordo, estasi, dormiveglia, nostalgia si mescolano in una pozione magica che seguirà chi ha incontrato la Voce stessa. La Sirena mette alla prova il navigante: “Ma tu davvero vuoi buttare via così un anno d’amore?” Nel sottotraccia una tensione fra il senso dell’abitudine e della dipendenza proprio dell’infatuazione e il senso dell’assenza e del vuoto. Amore o mera dipendenza sessuale? Una storia di passione o una semplice frequentazione di una donna a ore? La Sirena conosce i tempi e le dinamiche indotte dagli effetti dalla sua magia. Il “lui” del tutto assente è solo occasione di canto e di epifania.

In parte sirenica è anche Cuore(1964). Simile il sapiente carisma di re-invezione sirenica proprio dei Gatto Ciliegia: tempi rallentati e centralità di una Voce suadente e sussurrata, che è respiro e soffio. Nell’originale della grande Rita Pavone la potenza vocale dell’artista mette in sordina il carisma ossessionante del racconto sonoro che nella versione dei Gatto Ciliegia esplode nella sua potenza ammaliante e frastornante. Una canzone leopardiana dove il tema non è l’amato o l’amore, anche qui cantato giustamente e finalmente dal femminile e al femminile, ma piuttosto è il rapporto con il proprio cuore, quasi personificato, come fosse una realtà aliena con cui convivere e a cui prestare voce. Non c’è storia né evoluzione.

La sofferenza creativa di cuore non va salvata né cambiata. Il canto non ha altri fini che se stesso. Come nel Primo Amore di Leopardi: il canto è quello della tempesta di pensieri e sensazioni che l’idea dell’innamoramento scatena, non altro. Il cuore è archetipo maschile e la voce immagine femminile. Proprio la distanza qui tra voce e immagine del cuore misura la dimensione sirenica di potenza di malia omnipervasiva ma immota e sfuggente, che colpisce a distanza ma appare non catturabile. Distanza incolmabile ma che permette il canto che media. Tutto questo mi ricorda la “prigione d’aria” dove Viviana cela e occulta il suo infatuato Merlino.

Cuore appare quasi un canto auto-sirenico dove si celebra lo struggimento intimo, la dolcezza dell’ossessione, il consumarsi del e dal profondo. La potenza sirenica vince sempre “il Grande Freddo” della vita che cresce. Il canto il luogo dell’incontro.