Un film è riuscito quando lancia messaggi. Anche un solo messaggio è spesso sufficiente a dare carattere al film che lo esprime.

Middle East Now, il festival che coraggiosamente i due direttori artistici, Lisa Chiari e Roberto Ruta, hanno riproposto quest’anno, fra il 6 e l’11 Ottobre, oltre che da remoto, anche in sala in tempi di pandemia, è pieno di film con messaggi. Il tema dell’edizione 2020 è, non a caso,Visual Voices. La ricerca ha portato dal Medio Oriente immagini che sono voci forti di cambiamento, oggi più che mai necessari per il mondo, costretto a rinnovarsi. Vedere i film in sala ha sicuramente l’effetto di acuirne il senso. C’è un abisso, infatti, fra la visione su grande schermo, circondati dal pubblico, e quella solitaria sullo schermo del PC o dello Smartphone. Il pubblico, che ha sempre affollato questo festival, ha risposto all’offerta di quest’anno con entusiasmo, accorrendo numeroso a popolare - nei limiti dettati dalla pandemia - le proiezioni e “il punto delle 19 e 30", conferenze quotidiane in sala per presentare graphic novel, fumetti e una mostra fotografica. Anche ben quindici fra registi e produttori hanno partecipato alle proiezioni, superando gli ostacoli dei viaggi in aereo.

Sono arrivati dallo schermo messaggi chiari e forti sullo sfruttamento operaio (The Westland), sulla forza dei bambini nel superare ostacoli (Tiny souls); sulla tragedia di una società troppo violenta con le donne giovani (Sunless shadows); sul riscatto che l’amore per la musica produce nella vita di un ragazzo di “borgata” di Teheran (Shouting at the wind). Si potrebbe continuare, visto che i film mostrati erano 37 e 13 i cortometraggi. Il numero di quelli iraniani era di molto superiore a quelli degli altri Paesi presenti, Afghanistan, Arabia Saudita, Egitto, Iran, Israele, Iraq, Kurdistan, Kuwait, Libano, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia.

Il più votato dal pubblico, Between heaven and earth, della pluripremiata regista palestinese Najva Najjar (Palestina, Irlanda, Lussemburgo, 2019) è un road movie, che narra di una coppia palestinese che sta per divorziare, dopo cinque anni di matrimonio, fra scatti d’ira e risate complici, ed è rallentata dalla burocrazia israeliana. Il film suggerisce l’importanza, per la vita affettiva del marito, di rivivere il proprio passato, che gli permette di cambiare atteggiamento verso di lei, ricostruendo nel ricordo la relazione di coppia di suo padre e sua madre. La vittoria di questo film, a fronte di molti altri meritevoli, sta ad indicare che il pubblico, in questo particolare periodo, dà la preferenza a film a lieto fine, o almeno non troppo drammatici.

Novità di quest’anno un’iniziativa proposta da due registi iraniani, Sara Khaki e Mohammad Reza Eyni, presenti al Festival. Hanno sottoposto ai commenti del pubblico quindici minuti di un documentario su cui stanno lavorando, un work in progress alla ricerca di suggerimenti e finanziamenti ma anche, se è il caso, di critiche. Un metodo di lavoro che la dice lunga sul modo in cui questo film si sta sviluppando. Non sono autorizzata a dire di che parla, ma c’è da augurarsi che sia presto realizzato.

Tiny souls di Dina Naser (Giordania, Qatar, Francia, Libano, 2019), è un documentario a colori, ambientato in un campo profughi in Giordania. Descrive il quotidiano di una famiglia siriana, con tre bimbe e il cuginetto. Marwa, la più grande delle sorelle, che all’inizio ha 9 anni, usa spesso la telecamera per riprendere gli altri bambini in casa e per strada, e trova grande soddisfazione nel filmare. Ecco perché, a tratti, le immagini risultano sfuocate e i dialoghi imprecisi, ma il messaggio è di vitalità e speranza. Ci parla di scuola, di scontri con le sorelle, di momenti in armonia, di lavori quotidiani, di giochi e tempo libero. Col passare del tempo, vediamo crescere questi bambini, che affrontano anche le chiusure di altri abitanti del campo, reagendo alle ingiustizie senza perdersi d’animo. Trascorrono ben quattro anni con la speranza di tornare presto in Siria. Marwa, che crescendo si fa sempre più bella, comincia a parlare dei suoi amori, con allegria e senza timidezze. Tutti e quattro affrontano le sfide quotidiane, e insieme cercano occasioni per divertirsi.+ La regista si rammarica, durante la presentazione del documentario, che, sebbene Marwa le abbia lasciato prima di partire per il ritorno in Siria, il filmato, come avevano pattuito, non le ha dato modo di rintracciarla, probabilmente per la gioiosa fretta con cui se n’è andata. Lei spera sempre di poterla rivedere.

Reduce dalla sezione Orizzonti della Mostra di Venezia 2020, dove ha conquistato il primo premio, è sbarcato, a distanza di un mese, al Middleast now Festival Dashte khamoush (The Wasteland ovvero La terra desolata), di Ahmad Bahrami (Iran, 2020), anch’egli presente in sala, ed ha avuto, unico film della rassegna, una doppia proiezione, causa l’alto numero di richieste incompatibile col distanziamento necessario in sala.