Una domanda retorica ma non troppo. Alcuni anni fa aprimmo il nostro Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli con la citazione di un padre nobile del Novecento, lo storico britannico Eric Hobsbawm, autore di un breve saggio sui Festival culturali con cui tentava di rispondere alla domanda retorica sul valore dell’esistenza di simili eventi, considerato il crescente proliferare di questo genere di manifestazioni in tutta l’Europa. Hobsbawm concludeva, dopo alcune critiche e osservazioni, invitando tutti, comunque, a godersi l’imminente Festival musicale di Salisburgo del 2006, quasi a farsi perdonare l’apparente acredine della sua domanda che, pure, aveva lasciato il segno.

Oggi, se Hobsbawm fosse ancora tra noi, il suo quesito sarebbe da riproporre con il titolo di questo articolo. Ci sarebbe da chiedersi se, dopo tanta amarezza, dolore, sorpresa dovuta alla pandemia che ha ferito il nostro mondo nell’anno 2020, c’è ancora spazio per tanti Festival culturali, artistici, sociali, politici che ripropongono, spesso, il paradigma del pensiero dominante e del mercato o non sarebbe meglio tacere e lasciar riflettere tutti, ognuno per sé, sul destino dei singoli e dell’Umanità, rendendo “definitivo” il distanziamento sociale che il virus ci ha imposto. È quello che ci chiediamo oggi, a pochi giorni dall’esordio della XII edizione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli.

Anche noi, come Hobsbawm, siamo propensi a credere che i Festival possano essere testimoni di una ricerca del nuovo e non debbano essere spenti, a patto che (e il punto è proprio questo) svolgano effettivamente un ruolo maieutico, critico e creativo, altrimenti rischiano di consolidare i principi e le finalità del pensiero dominante che ci ha condotti fin qui. E su questo dilemma, proviamo a interrogare noi stessi, per capire quanto il nostro Festival possa essere utile in tempo di Coronavirus.

Due risposte per un Festival poco normale

La prima risposta che viene in mente è che la missione che ci siamo dati, 15 anni fa, non è propriamente quella di un Festival cinematografico tradizionale. Non abbiamo mai celebrato la cinematografia italiana e neppure mondiale, non abbiamo applaudito le grandi produzioni e gli attori famosi con il loro paniere di novità, non abbiamo neppure atteso il pubblico in sala, ma abbiamo cercato nuovi spazi (anche fisici) per il cinema in crisi, andando incontro a storie contemporanee, non solo italiane, incontrando le persone laddove vivono e misurano quotidianamente il valore concreto dei Diritti Umani. Talvolta abbiamo recuperato luoghi abbandonati contribuendo a riscoprire angoli dimenticati della Città.

Nei primi anni di attività, abbiamo persino tentato di offrire spazi internazionali alle opere documentarie prodotte da giovani autori italiani che si muovevano nel solco della grande tradizione socio-antropologica del dopoguerra, approfittando del nostro legame storico con l’Argentina e della sensibilità dell’Istituto di Cultura Italiana all’estero, ma dopo un po’ il Ministero ci ha tagliato i fondi, forse ritenendo che il cinema italiano non aveva nulla da apprendere dal resto del mondo, e ha preferito assegnare quelle scarne risorse a Festival e progetti che esportavano l’immagine ridente di una Italia vacanziera e spendacciona, un profilo risultato poi tragicamente falso. Allora andava di moda l’effimero e tutto si adeguava a quella tendenza. Oggi possiamo affermare che quel modo di gestire il cinema era penosamente obsoleto, presuntuoso e dannoso, ma ormai non si può tornare indietro, però serve riflettere sugli errori del passato.

A noi piace ricordare che, un tempo, il Festival di Venezia veniva “sequestrato”, per la breve durata della manifestazione, da intellettuali, attori e registi che occupavano il Lido e lanciavano segnali al mondo intero per dire che il Cinema (e l’Italia, e l’Europa) non era solo il regno dell’effimero, della bellezza e dell’evasione, ma la fucina della nuova politica, della solidarietà internazionale e della coscienza critica del mondo intero, insomma un balsamo per chi soffriva il tallone d’acciaio del capitalismo. Il Vietnam, l’America Latina e l’Africa erano considerati elementi essenziali per costruire una visione globale dell’arte e della democrazia che metteva all’ordine del giorno la condizione umana durante la guerra fredda, quando tutto il mondo era diviso tra blocchi politici granitici che sembravano inamovibili. Quei giorni di dibattito, quelle “occupazioni” corsare in cui Pasolini, Volonté, Zavattini e altri parlavano per ore ad alta voce delle utopie rivoluzionarie, erano la finestra aperta verso un mondo nuovo che oggi, lasciata senza orizzonte, sbatte al vento in una stanza vuota.

Forti di quei ricordi, abbiamo deciso di continuare a guardare fuori dell’uscio di casa, facendoci portavoce delle istanze di libertà e di lotta del cinema politico prodotto da popoli e Paesi che soffrivano la guerra o la mancanza di democrazia, anche nel cuore della grande Europa o persino nella lontana Australia. Siamo diventati cercatori di storie e di documentari che raccontavano le odierne forme di resistenza e di lotta contro il potere dei pochi che governano il mondo e questo ci ha trasmesso l’energia sufficiente a resistere fino ad oggi.

La seconda risposta che viene alla mente è il valore che queste storie possono avere per sviluppare consapevolezza di ciò di cui abbiamo bisogno per essere migliori, per vivere pienamente la nostra vita. Il nostro sogno ricorrente è quello di mantenere viva una coscienza critica che ha attraversato il cinema italiano negli anni ‘60 e ‘70 e che è poi sparita troppo presto dalla scena culturale del nostro Paese. In altre parole, vorremmo tenere accesa la flebile luce che faceva del Cinema Italiano un punto di riferimento dei popoli in cerca di libertà. Ci piacerebbe infatti, e non ne facciamo mistero, che da Napoli partisse un progetto di solidarietà, attraverso il Cinema e l’arte, che potesse stabilmente raccogliere, nella nostra Città, le istanze di tutti coloro che sognano la libertà di espressione e una maggiore giustizia sociale, dando attuazione al nostro storico slogan: Napoli, Capitale dei Diritti Umani. È troppo?

Ecco, sono queste le nostre ragioni e le risposte alla domanda retorica di Hobsbawm che non smetteremo mai di porre a noi stessi.

Napoli, le migrazioni e il 2020

E poi, perché Napoli? Perché qui, più che in ogni altro luogo, siamo nello snodo che separa il mondo antico da quello moderno, a due passi dall’Africa che rappresenta il futuro del Pianeta, dentro l’Europa che è l’antica espressione dello Stato ormai in crisi. È qui che si avvertono i sussulti delle migrazioni che il Mediterraneo non può più attutire e gli effetti della deriva dei continenti, della crisi climatica e delle contraddizioni del neo colonialismo finanziario, prossimo all’implosione. È qui che possiamo misurare la temperatura del pianeta surriscaldato dall’effetto serra e da decine di guerre e dittature che ne mettono a dura prova l’esistenza. Qui si fanno i conti con la storia e lo sviluppo, prima che altrove.

Ecco, il nostro sogno del Cinema dei Diritti Umani di oggi è questo: diventare il catalizzatore di una coscienza collettiva che, scegliendo il Cinema e il suo linguaggio come alfabeto del cambiamento, provi a sollecitare le sensibilità di tutti coloro che vivono nella rete e credono nella solidarietà come motore di cambiamento, per offrire informazione, occasioni di incontro, di riflessione e azione, per dare finalmente vita a progetti e strategie di sopravvivenza dedicati a chi non accetta gli orizzonti del neocapitalismo e dello sfruttamento senza regole delle risorse naturali, del suolo, delle foreste e delle persone. Il Cinema dei Diritti Umani come antidoto all’indifferenza, al disastro ambientale, alla fine della politica, per dirla con Hobsbawm.

La drammatica vicenda del Coronavirus non fa che incoraggiare queste scelte di resistenza. La pandemia, infatti, ha dilatato le distanze tra i poveri e i ricchi, ha acuito le contraddizioni del nostro folle modo di vivere a discapito dell’ambiente, riducendo la speranza in un futuro sostenibile a cui avremmo voluto che il mondo intero si convertisse dopo gli appelli di Greta Thunberg e degli scienziati. Avevamo scommesso l’edizione del 2019 del nostro Festival su questo obiettivo, ma la pandemia ci ha riportato indietro, pur con una coscienza nuova.

Qualcuno ha scelto, visti i risultati deludenti, di isolarsi del tutto e rinunciare alle idee e attendere il ritorno della “normalità”. A noi, invece, piace pensare che più le persone sono sole e più c’è motivo di proporre momenti di dialogo per capire come poter resistere, senza cedere al pensiero unico che ci vuole soli e lontani. Ed è questo lo spirito con cui, in pieno lockdown (27 marzo – 4 maggio 2020), abbiamo lanciato uno slogan e una rassegna di pensieri: Virus e diritti. Non spegniamo il cervello che ha avuto un buon successo e a cui oggi si ispira il nostro XII Festival intitolato Diritti in ginocchio. Pandemia, sovranismi e nuove discriminazioni.

Non resta che adattare le nostre strategie comunicative agli strumenti tecnologici disponibili e riprendere la strada del racconto, della ricerca di verità e della lotta. Non abbiamo mai venduto biglietti e abbiamo scelto la strada della sobrietà, del volontariato, abolendo tappeti rossi e gettoni per gli ospiti, per essere coerenti con la nostra missione di raccontare i Diritti Umani; questo ci ha reso più adatti a sopportare la mancanza di risorse, di pubblico, stando fuori dal cosiddetto “mercato”.

In fondo, la crisi del Cinema e della cultura ai tempi del Coronavirus, fa il paio con la crisi del lavoro che, da molti anni, non ha più la fabbrica, il luogo dove migliaia di persone si incontravano quotidianamente dividendo il pane e i pensieri, ma non per questo ha ceduto i suoi diritti. Il Cinema non ha più le sue sale di proiezione, ma resta uno degli strumenti più efficaci per descrivere i cambiamenti del nostro tempo. Cambia il lavoro e cambia pure il modo di fruire della cultura. Ci adatteremo, ma difendendo i nostri valori.

E allora lasciateci dire che c’è ancora bisogno di Festival, eccome, ma di Festival diversi, capaci di raccontare e promuovere nuove resistenze, più adatti alla tensione dei nostri giorni. E, almeno in questo, il nostro Festival è già nel futuro.