La data d’inizio del 42° Festival di Cinema e Donne, posposta quest’anno al 25 novembre a causa della pandemia, ha coinciso con la giornata dedicata alla violenza contro le donne. Nella mattinata di apertura si è dibattuto in webinar fra politiche, direttrici di festival, universitarie, documentaristi e associazioni, sulla rappresentazione delle donne nel cinema e nelle immagini mediatiche, sottolineandone forme che perpetuano un’idea di donna limitata, inferiore ed incapace, all’origine della legittimazione di molte forme di violenza sulle donne. Di contro il cinema fatto dalle donne in questi ultimi anni è un efficace strumento di contrasto alla cultura malata di violenza nel proporre personaggi femminili indipendenti, creativi, autorevoli, lontani da vecchi stereotipi. Ha partecipato attivamente al webinar Silvia Lelli, PhD Antropologa Culturale all’Università di Firenze e documentarista.

La Lelli è riuscita a condensare nei dodici minuti del suo documentario Histoire d'H (Italia, 2018), la confessione di una donna vittima di un incesto pedofilo, le dinamiche altalenanti di cui era preda data la giovane età e le pesantissime conseguenze per la sua vita. La forza e la chiarezza con cui l’intervistata si esprime su un argomento che in Italia ancora oggi è tabù per tacito assenso, se da una parte indica la capacità della Lelli di entrare in rapporto con l’intervistata, dall’altra indica in H un’apertura alla speranza che la storia di relazioni malate fra i sessi e le generazioni possa venire superata, non solo curandosi, ma anche rendendola di dominio pubblico. Per fare questo H, la “lettera muta” scelta come pseudonimo della protagonista, si trasforma e parla della sua storia.

Causa pandemia quest’anno i filmati di Cinema e Donne li vediamo sul computer personale. Visione un po’claustrofobica, senza la magia del buio, del grande schermo e del pubblico intorno. L’unico vantaggio è poter sovvertire l’ordine in cui guardare le diverse opere e rivederne alcune sequenze in caso di necessità.

Realiste e visionarie è il titolo della rassegna di quest’anno. Aggettivi che si riferiscono alle registe di cui sono stati scelti i film, quasi tutti super premiati in altri festival.

La più realista di tutte le registe, per me, è Belèn Funes, spagnola alle prese, ne La hija de un ladrón, (Spagna, 2019), con la descrizione della vita di Sara (Isabel Coixet), figlia di un ladro, ripresa quasi ossessivamente nei singoli momenti di una dura vita quotidiana, fra un infante da allevare, un fratellino ribelle e un padre inaffidabile, di cui lei caparbiamente vuole l’affetto che lui le nega o non sa darle. Questa ventenne non si sottrae al lavoro né alle responsabilità. Ma non riesce a sfuggire a un destino ostile, cui non sa ribellarsi per paura della solitudine.

La più visionaria mi è apparsa Callisto McNulty, col suo documentario Delphine et Carole Insoumises (Francia/Svizzera, 2019) che ricostruisce la vita di due passionarie del video, ai tempi dell’apparire delle macchine da presa portatili, negli anni ‘60. Si tratta di Delphine Seyrig e Carole Roussopoulos. Fascinosa attrice dei grandi registi della Nouvelle Vague (Truffaut, Demy, Bunuel, Resnais) la prima, pioniera del videoattivismo femminista la seconda. Complici nell’organizzare collettivi e manifestazioni con grande allegria e in modo così originale che riuscivano, con pochi mezzi, a creare una comunicazione alternativa, molto seguita ed apprezzata.

Questo documentario, sebbene costruito con video d’archivio, ha la forza dirompente dell’attualità, a dimostrare che le lotte delle donne devono continuare ad ispirarsi a chi, nel passato, ha lottato con coraggio e intelligenza.

Arriviamo al più lungo e famoso dei film in programma, A portuguesa, (Portogallo, 2018) di Rita Azevedo Gomes, una regista al di là delle classifiche. Ha suscitato grande interesse al Forum della Berlinale 69 e trionfato al Festival de Cine de Las Palmas de Gran Canaria 2019. Grande cinema portoghese che trasforma un film storico, al tempo delle lotte per l’investitura tra Impero e Chiesa, tra X e XI secolo, in messaggi di attualità. Ammalia il fascino di ambienti che la regista crea nella dimora e nella natura, di abiti di foggia e colori, elaborati e semplici ad un tempo, di rapporti speciali con uomini, donne e animali della protagonista, la brava Clara Riedenstein, sposa e madre giovanissima, che ha seguito il marito in terra straniera e che si esprime al meglio senza ricorrere alle parole, reggendo lei sola il dialogo fra maschile e femminile, arduo fin dall’inizio con il marito-padrone. La chiave di lettura più profonda è lo scorrere del tempo, protagonista dominante del film. Ha la forza di un personaggio, astratto e sfuggente perché invisibile. Crea lo spazio che lei riempie di ricerca del bello in un luogo vicino al Brennero, così diverso dal mare e dalla luce del suo Portogallo. Le ricorda l’assenza del suo amore. Lei sostiene la sua giovinezza, deprivata del compagno che è sempre in guerra, giocando con il cucciolo di lupo e il gattino. Li preferisce ai suoi figli, che affida alle fedeli ancelle. Li preferisce, dopo i primi anni, anche all’assente marito, perfino in sua presenza. L’inesorabile lento scorrere del tempo modifica la giovane sposa, ledendone la generosa apertura alla vita. La scena iniziale, con l’inquietante Ingrid Caven che con voce da cantatrice da kabarett, esegue il poema medievale Unter Den Linden, è forse una premonizione del cambiamento?

Rita Azevedo Gomes è stata collaboratrice di Manuel De Oliveira. La giovane sposa del film ha qualcosa in comune con certe eroine inquiete del gran maestro portoghese, ma ciò nulla toglie all’originalità con cui Rita costruisce il film intorno alla protagonista, attingendo alla sua cultura cinematografica, letteraria e pittorica.

Un film questo che ti aleggia intorno per giorni, impedendoti di avere voglia di vederne altri.