A 72 anni, quando potrebbe anche essere lecito aspettarsi un certo rallentamento creativo, Marc Copland pianista di arte sopraffina, ha dato una robusta sferzata alla sua carriera grazie a un album in solo dedicato al suo compianto amico John Abercrombie (e non mancate l'omaggio precedente a Gary Peacock, altro gigante del jazz moderno), firmandone un altro in quintetto con dei compagni clamorosi nelle individualità di Dave Liebman, Randy Brecker, Joey Baron e Drew Gress, autori di una prestazione superlativa per temi ed esecuzioni, ispirandosi al meglio delle loro capacità con riverberi che portano al meglio del repertorio di Duke Ellington, Charlie Parker, Miles Davis, Charlie Mingus. Ovvero l'olimpo assoluto. Ce ne ha parlato in esclusiva.

Cosa le ha lasciato in eredità, non solo riguardo il jazz, un fuoriclasse come Abercrombie? Come vi siete incontrati?

Intanto è stato un grande amico e compagno, che mancherà davvero tanto a tutta la nostra comunità: con John ci siamo conosciuti nel 1970, quando lui era pendolare da Boston a New York per lavorare nel progetto Dreams, il primo gruppo orientato sul versante jazz-rock dei fratelli Brecker. Rimase con loro per qualche mese, ma poi decise di tornare a Boston, salvo unirsi l'anno seguente a quello di Chico Hamilton, in cui militavo già io. Abbiamo condiviso tante esperienze, traslochi compresi nel suo appartamento dell'East Village. Suonavamo diverse volte a settimana, parlando di musica, facendo concerti e molto altro.

All'inizio ero in soggezione nei suoi confronti, perché molti musicisti lo consideravano il modello per eccellenza, non solo dal punto di vista chitarristico, ma a lui non interessava questo, piuttosto si preoccupava della sua integrità artistica e lo dimostrava costantemente. All'epoca io ero un giovane sassofonista ambizioso, e sognavo di farcela. John per me fu una rivelazione: non gli importava del successo o del denaro. Voleva semplicemente realizzare ciò che sentiva e in cui credeva. Vedere John suonare, pensare e vivere con questo tipo di dedizione alla musica era umiliante e gratificante al tempo stesso. Lui rappresentava il punto di idealità, in altre parole il più alto livello di onestà artistica. Era quello che desideravo più intensamente, ma il problema era che ancora non sapevo come fare a raggiungere quel livello. Ma non mi sono perso d'animo e a poco a poco sono arrivato a comprendere il sentiero da compiere, o meglio cosa mi sarebbe servito per diventare quel tipo di musicista. Una volta raggiunto quel traguardo non mi sono mai voltato indietro. Questo disco è dedicato a lui e ne condensa l'integrità umana, lo spessore artistico, l'esempio costante.

Ha sviluppato la sua carriera prefiggendosi degli obiettivi precisi o piuttosto ha lasciato fluire placidamente le cose?

Gli obiettivi che mi sono posto hanno riguardato il continuare a crescere e a sviluppare il mio potenziale dapprima come essere umano e poi come artista. Non c'è vittoria pubblica senza quella privata. Con tale consapevolezza il progresso è inevitabile e ci si evolve con un flusso tranquillo. Occorre un lavoro interiore che richiede molta energia ed impegno, ma quel lavoro non è poi così stressante, vista la gratificazione che si raggiunge.

Attualmente considera più l'aspetto melodico o quello ritmico del suo stile?

Sono inscindibili. Se sei un pianista, solista o accompagnatore, devi prima sentire, poi ascoltare e quindi suonare. Se non sento niente, allora è meglio non suonare. Isolarsi in uno spazio mentale di silenzio è un buon modo per far fluire le idee. Quello che sento spesso all'inizio di un concerto, o di una registrazione è una trama, una melodia, un colore o un suono di qualche tipo. Cerco di andare in una direzione con quella traccia, che può portare a un luogo inaspettato, a una conquista armonica. Mi piace quando succede, e di solito tutto il resto si sviluppa da lì.

Trascorre una buona parte dell'anno in Europa, quali sono le sue impressioni, non solo come musicista, riguardo al vecchio continente?

Come molti musicisti americani, sono stato spesso in tournée in Europa, adesso la frequento per motivi personali. Sono affascinato dalla storia e dalla cultura che è riscontrabile ovunque. Mi piace visitare vari Paesi e sentire, e a volte suonare, con alcuni grandi musicisti che ho incontrato. Il bello del jazz è che ancora adesso è una musica che non conosce confini.

Le è capitato di collaborare con qualche big band radiofonica europea?

Solo una volta un paio d'anni fa, con la big band di Amburgo, sotto la direzione del compositore e direttore d'orchestra Hans Koller. Mi sono divertito molto, Hans mi ha compreso al volo ed ha reso tutto molto facile, e la band è stata eccellente.

Come riesce a controllare il flusso creativo quando suona?

Quando il flusso si incanala la musica si sviluppa da un luogo profondo. So come aiutarla a fluire, ma non riesco a spiegarlo e soprattutto non riesco a controllarlo. Posso solo arrendermi alla potenza della musica essa: ritengo che sia la soluzione migliore.

Qual è lo stato del jazz oggi, in che forma lo considera? Prima ha sottolineato la libertà anche in termini di confini e stimoli: cosa ha aggiunto alla sua vita?

Credo fermamente che suonare musica, cercando di farlo al massimo delle mie capacità, mi ha reso una persona migliore. Più si è centrati con se stessi e più è facile essere aperti a cose nuove, ad accoglierle sia dall'esterno che dall'interno, imparando di più su questo mestiere. Questo processo porta sicuramente a fare della musica più ispirata. Per me è importante non solo essere un buon musicista, ma anche un buon essere umano.

Che incoraggiamento potrebbe lasciare alla prossima generazione di jazzisti?

Di essere fedeli a se stessi, di suonare quello che si ha dentro, di lavorare sodo. Se si è sinceri con la musica allora si entra in un'altra dimensione: personalmente quando mi sento coinvolto, sia che si tratti di suonare in un concerto o di provare in studio o a casa, non sono neanche consapevole del tempo che passa, è quasi uno stato meditativo... potrebbe passare anche un'ora o due prima che ne prenda coscienza. Mi trovo sempre disponibile a vagliare collaborazioni con musicisti di tutte le età: quando si stabilisce un nuovo contatto con un musicista, quando ci si incontra, l'obiettivo è di arrivare a quel livello profondo che tutti noi ricerchiamo ed amiamo. A quel livello anche l'età sparisce e questo accade anche con musicisti ancora più grandi anagraficamente, anzi vuole sapere una cosa? Nessuno di noi si considera vecchio. E credo di sapere anche il perché. I musicisti della mia generazione, quelli a cui sono vicino come esperienza condividono un desiderio che è quello del miglioramento costante: vogliamo continuare a imparare, a suonare meglio, possibilmente in modo anche diverso, rispetto a quanto abbiamo realizzato prima. Non vedo come un musicista completo possa continuare a svilupparsi e crescere a qualsiasi età se non in questa maniera, a meno che non rimanga un appassionato studente di musica.