Quest’anno il 32° Trieste Film Festival è stato una vera scuola di cinema, avendo selezionato un grande numero di opere da sottoporre all’attenzione del pubblico, chiamato anch’esso a votare per il miglior filmato nelle tre categorie: lungometraggi, documentari e corti.

I numerosi premi attribuiti da giurie di varia estrazione sono stati distribuiti su argomenti molto diversi, dimostrando non solo la presenza di un gran numero di opere di buon livello, ma anche, ovviamente, una grande disparità di giudizio da parte delle giurie.

L’unico film ad aver collezionato ben due premi è stato il lungometraggio Otac(Padre). Il pubblico gli ha attribuito il premio di miglior lungometraggio. L’altro premio lo ha ottenuto dal CEI (Central European Initiative), che lo ha motivato come il film che meglio interpreta la realtà contemporanea. Il regista quarantottenne Srdan Golubovic è narratore misurato ma assai efficace di un’epopea che racconta della globalizzazione della povertà in un mondo destinato a peggiorare per la perdita del lavoro, reso ancor più drammatico dall’imperversare della pandemia.

La cinematografia polacca, e insieme quella rumena, sono state le più rappresentate quest’anno. Dominate entrambe dalla religione. Ben tre giovani registe polacche scelgono di trattare la cerimonia della prima comunione, trasformata in una festa simil matrimonio, con gran numero di parenti, regali e cibo. I bambini non ne apprezzano l’importanza; gli adulti, al contrario, sono preoccupati di non raggiungere il massimo livello che si sono imposti per festeggiare l’evento. Fa eccezione Anna Zamecka, per la quale la comunione del film, intitolato appunto Comunione, è l’esca utilizzata dalla quattordicenne Ola (Ola Kaczanowska) per far tornare in famiglia sua madre che ha piantato in asso il marito alcolizzato, lei e l’altro figlio, affetto da autismo. Il film, riproposto nella sezione Wild Roses, dedicata alle donne registe, è costruito magistralmente e si avvale della splendida recitazione dei due fratelli. Aveva già vinto come miglior documentario al TSFF del 2016 ed è di gran lunga superiore a Wild Roses di Anna Jadowska, e a La torre di Jagoda Szelc, le altre due registe polacche scelte dal Festival. In questi due ultimi film la protagonista femminile si muove in modo assai maldestro, attirandosi grossi guai. All’origine della scarsa credibilità dei due racconti c’è l’eccessiva problematicità da cui in entrambe le storie sono afflitte le protagoniste.

La religione è grande protagonista anche in Malmkrog, del rumeno Cristi Puiu, che, prima della proiezione, ha tenuto una masterclass esplicativa del modo in cui ha costruito il film, che colpisce per la ricostruzione - siamo agli inizi del ‘900 - di una villa in cui vive un aristocratico terriero russo, che ha invitato un gruppo di amici. Sia gli ambienti raffinati, pieni di domestici, sia le discussioni storico-religiose descrivono un mondo opposto a quello comunista ateo dove è nato e cresciuto il regista. Che ci trasmette il compiacimento di aver creato un “oggetto del desiderio”, anche se rimaniamo incerti se sia in ammirazione o faccia un atto d’accusa per le teorie oscurantiste e le previsioni antistoriche che trapelano dai discorsi, peraltro educatissimi, di alcuni personaggi. Un esercizio retorico avulso dalla vita reale, che nel film viene vissuta solo dai servi, oberati di incombenze.

Anche la guerra è un argomento svolto da parecchi dei registi invitati. Sono trascorsi 30 anni dall’inizio delle guerre balcaniche, ma la ricostruzione di quell’evento è rimandata al primo Festival che si potrà svolgere in presenza. La guerra è oggetto di film di rievocazione, ma anche di descrizione dei nefasti esiti che ha prodotto sul versante della perdita del lavoro e della conseguente emigrazione del capo famiglia o della famiglia intera per sfuggire alla povertà. In Non piango mai, di Piotr Domalewski, una diciassettenne si trova implicata, suo malgrado, nel risolvere problemi da capofamiglia, dopo che il padre, che lavorava in Germania, è morto in un incidente sul lavoro. Un film condotto con grande sensibilità dal regista polacco. Dispiace che non abbia ottenuto premi.

Exil, di Visar Morina, è la descrizione, di lentezza esasperante, del malessere che un ingegnere kosovaro prova sentendosi discriminato dai colleghi tedeschi con cui lavora, essendo emigrato in Germania a causa della guerra del Kosovo. Ha ricevuto una menzione speciale dalla giuria dei lungometraggi.

Per il miglior lungometraggio tale giuria ha dato il premio Trieste a Beginning, opera prima della regista georgiana Dea Kulumbegashvili. Film molto inquietante, spiegato in una intervista alla regista, in cui Dea dichiara di essere interessata a ricercare, attraverso la costruzione di un film, i meccanismi che possono portare una donna “perdente” a commettere un delitto efferato. Nel film l’incapacità di reagire e, a tratti, l’immobilità della protagonista sono uniti ad una rigidità educativa verso il figlio e verso i ragazzini cui insegna il catechismo. La vera molla della crisi in cui si dibatte la protagonista appare risalire alla scelta di un marito a capo di una chiesa di fede diversa dalla sua, scelta fatta per uscire dalla povertà, sottovalutando il fatto di vivere in un Paese fanaticamente cattolico, per il quale i testimoni di Geova sono dei miscredenti da distruggere.

I corti selezionati erano di argomenti molto vari, e per la maggior parte di livello alto.

Per il pubblico il miglior cortometraggio è stato giudicato Love is just a death away di Bára Anna Stejskalová. Un'animazione coprodotta dalla FAMU di Praga, una storia delicata sulla ricerca dell'amore anche in mezzo al degrado più totale.

Per il festival il miglior corto è stato invece Beyond is the day di Damian Kocur, perché descrive che il bisogno di rapporto umano riesce a superare la barriera linguistica.

Di grande impatto il corto Pezzi, che affronta il problema se sia giusto, in una coppia che si separa, che ai figli non venga descritto il motivo. La cosa spesso si tiene nascosta per non distruggere la figura del genitore, ma questo corto ci dice di ripensarci. I figli rischiano di andare in… pezzi.

Premio ai documentari per il pubblico è stato Town of glory di Dmitrij Bogoljubov, che racconta che durante la guerra, Stalin permise alla città di El'nja di liberarsi dal nazismo invasore e ne fece un simbolo di speranza ed eroismo. Il regista ha seguito alcune famiglie di “patrioti locali” tra cui emerge il ritratto di una giovane che si esibisce in canzoni patriottiche e adora Putin.

Sempre per i documentari il festival ha scelto di dare il premio Alpe Adria Cinema ad A casa, My home di Radu Ciorniciuc, che affronta la difficoltà di rapportarsi a culture diverse minoritarie, che non vogliono - o non sanno - integrarsi con la maggioranza.

Un altro premio va ad un attore che ha gettato un ponte fra Est e Ovest col suo lavoro. Quest’anno premiato Miki Manojlović, un grande interprete che si è imposto grazie al sodalizio con Kusturica (oltre a Underground ricordiamo Papà… è in viaggio di affari e Gatto nero, gatto bianco) per poi superare i confini della Jugoslavia lavorando con registi come François Ozon (Amanti criminali), Giuliano Montaldo (I demoni di San Pietroburgo), Sam Garbarski (Irina Palm).

Infine, il Cinema Warrior Award, istituito per premiare l'ostinazione, il sacrificio e la follia di chi “combatte” per il cinema, va all’Associazione U.N.I.T.A., per il suo impegno nella promozione del mestiere dell’attore nel panorama artistico, culturale e sociale italiano, con la proposta di collaborazione a tutti i livelli degli attori, dai più famosi ai principianti.