Un affascinante mix di blues, folk, rock e country nel quarto disco del musicista toscano trapiantato in USA. Strumenti della tradizione americana e musicisti della Tidewater in un lavoro realizzato durante il lockdown.

“Venite nel mio mondo”. Un invito speranzoso in un periodo difficile dal punto di vista sanitario, economico e anche culturale e artistico. Cosa trova l'ascoltatore che entra nel tuo mondo?

Come To My World è un invito a seguirmi nel mio percorso musicale ed emotivo. Un mondo fatto di tante sfaccettature e colori diversi, un viaggio interiore, non solo attraverso vari generi ed atmosfere musicali, ma anche tra emozioni e sensazioni contraddittorie e contrastanti: un percorso introspettivo, in parte dettato anche dal downtime del lockdown.

Come To My World è il tuo quarto album in cinque anni, una buona media per chi si muove in modo indipendente. Quali sono le differenze dai tuoi precedenti dischi?

Come to My World è sicuramente il proseguimento, forse più maturo, del mio cammino musicale iniziato con Shadows and Fragments, una raccolta quasi completamente acustica di composizioni che avevo scritto poco più che adolescente, seguito da Windward, che esprime invece la voglia di guardare avanti, verso il futuro, in cerca di un cambiamento. Il terzo album On The Other Side Of the Water, il primo registrato e pubblicato negli USA con musicisti americani, in cui il cambio è fresco e il territorio tutto da esplorare, infine Come to My World in cui l’esperienza americana è certamente più consolidata, le collaborazioni coi musicisti più mature e l’intreccio di sonorità, strumenti e generi più organico.

Anche stavolta ti muovi al crocevia tra blues, rock, country e folk. Qual è il minimo comun denominatore, il fil rouge se preferisci, con cui tieni insieme queste culture?

Direi che il legante alla fine è il mio background musicale che in realtà è un mix di tutti questi generi. Non mi ritengo un purista di nessuno stile in particolare e quando compongo non penso mai ad un genere preciso, piuttosto a un’atmosfera che un certo sound mi evoca e da lì poi si sviluppano la composizione e il testo. Immagino sempre i miei pezzi come se fossero suonati dal vivo, magari da una band numerosa e libera di improvvisare e di muoversi sulla struttura del brano, ognuno aggiungendo un colore diverso. L’ossatura principale della mia musica è generalmente la chitarra acustica, strumento che uso di più per comporre, anche se sempre di più mi piace avventurarmi componendo su altri strumenti, dal pianoforte ad altri strumenti a corda.

Inevitabile parlare di Covid, con il quale ogni artista si trova a che fare, nel male – la reclusione, l'impossibilità di concerti, di incontri con il pubblico – ma anche nel bene, come nel tuo caso: la pandemia come occasione di riflessione, scrittura e registrazione. Un lockdown creativo?

Sicuramente la condizione unica dovuta alla pandemia ha influito molto sul disco, sia per il vuoto sociale creato dal lockdown, che in un certo senso ha stimolato il lato creativo, sia per le notizie tragiche e allarmanti in arrivo dall'Europa e dall'Italia in particolare che hanno certamente contribuito a rafforzare le sensazioni di incertezza, preoccupazione, solitudine.

Molte composizioni sono ispirate infatti da questi sentimenti, a partire da My Loving Babe, una canzone giocosa che si può leggere in diverse chiavi, una di queste l'amore del musicista verso la sua chitarra e la voglia di prepararla per la serata dal vivo (che purtroppo non ci sarà...), All My Blues che parla del distacco e della lontananza, Endless Rain scritta pensando alla violenza di un uragano, parla di un cataclisma imminente che si può affrontare solo con l'amore tra le persone, Your Lullaby è una ninnananna scritta pensando di scacciare le paure della notte, Notte uno strumentale per piano e archi, nel quale ho cercato di condensare quella calma tragica e solenne che si prova dopo alcuni eventi molto toccanti, Song in The Distance scritta letteralmente a distanza insieme alla cantautrice americana Lily Prigioniero. Come To My World è una canzone sull'incomunicabilità, sull'impossibilità di comprendere e comprenderci, a volte accentuata dalla convivenza forzata, ma anche un invito ad avvicinarsi e a cercare di andare oltre la superficie ed entrare nel profondo delle sensazioni e dei pensieri.

Lockdown che hai vissuto in America, tuttavia pensando all’Italia, come emerge da un paio di brani verso la fine.

L'album si chiude proprio con due brani opposti: Tidewater Attitude che descrive la Virginia con gli occhi di un Europeo e Home, una piccola improvvisazione strumentale per chitarra, con sonorità più mediterranee, ispirata dalla mancanza per l'Italia, vista dall’estero nel momento più disperato della pandemia.

La tua attenzione agli strumenti della tradizione americana ancora una volta è al centro. Qual è il fascino di dobro, lap steel e altri gioielli a stelle e strisce?

Gli strumenti tradizionali hanno sempre avuto un grande fascino per me, non solo quelli americani. Mi piace l’idea che si possa fare musica con materiali e ingredienti locali, perché sono quelli che alla fine creano il sound, come gli ingredienti locali creano il piatto in cucina. Mi piace andare a scoprire come certi artisti componevano le loro canzoni e come spesso la limitazione dello strumento stesso crea i vincoli che danno la forma alla composizione stessa. Strumenti come il banjo, la cigar box guitar, la resonator guitar, la slide guitar, il mandolino, l’armonica, la fisarmonica, hanno ciascuno un proprio sapore ed un suono unico, che riesce a dare al brano quel colore evocativo, tipico di un certo territorio o di una certa epoca. cosi come la scelta di una particolare chitarra.

A proposito di America, dove vivi dal 2016, quali sono gli aspetti culturali e sociali che più ti interessano e che penetrano nella tua scrittura?

L’America, intesa come Nuovo Mondo, è un po’ la rappresentazione del sogno, del territorio inesplorato, della libertà. La Virginia, e in particolare l’area costiera di Yorktown, sono la culla della società americana, dove il primo insediamento inglese stabile fu fondato (Jamestown) nel 1607, dove sorsero le prime interazioni e conflitti con i Nativi (Pocahontas viveva proprio da quelle parti), dove sbarcò la prima nave schiavista con quelli che furono i primi African Americans, dove George Washington vinse la battaglia per l’indipendenza e dove Abraham Lincoln lesse la Proclamazione di Emancipazione agli Stati del Sud.

Un territorio ricco di storia e contrasti, dove sono stati gettati i semi di quelli che saranno poi gli ingredienti della musica del Novecento: blues, jazz, folk, country, fino al rock. Sono proprio questi gli aspetti che più mi interessano, e proprio perché si tratta di un Paese ancora giovane queste differenze sono ancora evidenti e tangibili, nei suoni, nei linguaggi, negli strumenti, nei contrasti sociali. Dove ancora si possono sentire i fiddle tunes irlandesi, i canti dei nativi e i ritmi africani.

È difficile per un italiano fare musica negli States? La globalizzazione e l’abbattimento di ogni distanza ha in qualche modo livellato le differenze tra artisti americani e stranieri?

Sono arrivato quattro anni fa molto timoroso e dubbioso, abbastanza scettico di poter continuare a suonare negli Stati Uniti, essendo non madrelingua e non conoscendo niente dell'ambiente musicale locale. Ho trovato invece una realtà molto aperta che mi ha accolto, apprezzato e supportato fin dall'inizio, dandomi la possibilità di esprimermi sia dal vivo che in radio e televisione.

Per fortuna la globalizzazione non ha ancora mescolato in un grigio uniforme tutti i colori: le differenze ci sono e si trovano sempre. Sono proprio queste differenze a creare varietà e curiosità. Nel mio caso, venendo dall’Italia, rappresentavo l’elemento esotico che destava curiosità.

Bobby BlackHat, Michael Glass, Pamela Joe Sward sono alcuni dei musicisti con cui collabori, presenti anche in Come To My World. Cosa bisogna fare per essere credibili agli occhi e alle orecchie di colleghi statunitensi?

L’ambiente musicale che ho trovato si è dimostrato molto coeso e unito. Sono i musicisti stessi a creare il pubblico in primis, sostenendosi a vicenda, ad alimentare l’intreccio di locali, festival, radio, tv. Attraverso il passaparola e le collaborazioni. Molto raramente ho trovato gelosie, chiusure o ostacoli. Alla fine, ho sempre cercato di essere me stesso, con molta umiltà e voglia di imparare, cercando sempre collaborazioni e dando ai musicisti con cui ho suonato libertà totale di essere se stessi. Le differenze linguistiche e culturali non sono mai state un problema, semmai una scusa per farsi due risate in più.

L'album ha una dedica speciale, al bassista Dave Hufstadler, che non c'è più da un anno.

Dave è stato un grande musicista e professionista con il quale ho avuto il privilegio di collaborare. È stato uno dei primissimi che mi sono stati presentati quando cercavo di mettere su la band. Amava molto la mia musica e le mie composizioni e ho trovato in lui una spalla e un supporto solido ed importante sia dal vivo che nelle registrazioni. La sua prematura scomparsa ha lasciato un vuoto enorme in tutta la comunità di musicisti, essendo un professionista molto conosciuto e disponibile.

Cosa ti aspetti da questo disco?

Non mi aspetto mai niente dai miei dischi in realtà, quando un album è completato, anzi forse già prima, sto già pensando ad altri progetti. Quello che penso sia importante, almeno per me, è essere coerenti con sé stessi, con le proprie composizioni e il proprio sound, e spesso questo vuol dire anche cambiare ed esplorare nuovi territori. Ovviamente a piccoli passi mi fa piacere che le mie composizioni siano apprezzate ed ascoltate sempre di più, sia in Italia che all’estero. Il fatto che molte radio, non solo negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, Australia, Germania, Olanda, Norvegia, abbiano trasmesso le mie canzoni, mi fa pensare che la mia musica, purché destinata ad un pubblico abbastanza di nicchia, possa essere apprezzata ovunque. Questo per me è una grande soddisfazione che mi stimola ancora di più a comporre e pubblicare.