Penombra (anche noto come: Il Bacio) di Gaetano Previati è un dipinto che non ti abbandona. L’impressione del bacio sulle labbra dei due innamorati è indelebile non solo per i due protagonisti, ma anche per chi – dal 1891 – si sofferma ad osservarli, costretto a fare i conti con la potenza suggestiva delle visioni che ne scaturiscono. Previati ci interroga sulla nostra reale capacità di comprendere e mantenere quella sensazione senza darla per scontata o – peggio – dimenticarne l’eterna imprescindibilità.

Con l’uscita di Mantieni il bacio, ultimo singolo di Michele Bravi, il percorso che l’ascoltatore è chiamato ad intraprendere è lo stesso. Se per il dipinto di Previati si parte dallo sfondo, soffermandosi sulla scelta dei colori e dei contorni prima di venire rapiti dal bacio, lo stesso approccio può essere riservato al brano di Bravi che parte velatamente, con un dialogo intimo tra voce e pianoforte per poi trovare il suo apice in un ritornello che invita ad accettare l’ineluttabile capacità dell’amore a “salvarci dalla ferita del mondo”.

Mantieni il bacio è il secondo singolo estratto da La geografia del buio (dopo La vita breve dei coriandoli), un concept album di rara bellezza ed intensità, dove immagini oniriche vengono evocate da parole meticolosamente calibrate. Opera appena uscita, ma scevra da connotazioni spazio temporali possibili. Capolavoro necessario per sua stessa essenza.

L’album consta di dieci brani, di cui uno strumentale: A sette passi di distanza, pezzo posto a chiusura del disco ma nato per primo, quando la voce non era ancora in grado di raccontarsi nuovamente, ma le note sapevano già soccorrerla.

Nell’intervista concessaci, raccontandoci la genesi dell’album, Bravi cita Diario di un dolore di C.S. Lewis nel quale l’autore britannico affronta la perdita della moglie e parla di “orientamento dell’afflizione”. Similmente, Michele ci invita a non ignorare il buio, ma a conviverci come unica mossa di accettazione salvifica. Tiene la mano del suo pubblico per aiutarlo in un tipo di orientamento al quale non si è avvezzi: in assenza di luce. Assenza che non va ignorata, poiché cela una promessa: quella dell’alba, come suggerisce il brano di apertura de “La geografia del buio”.

La Geografia del buio è uscito a fine gennaio. Come ti senti adesso che l’album è fuori e gli ascoltatori lo stanno interiorizzando in base al proprio vissuto?

In generale, ho tanta difficoltà a verbalizzare le emozioni e forse è la ragione per cui preferisco cantare, inoltre non sono mai stato così vulnerabilmente esposto. Ogni volta che esce una tua canzone o un tuo racconto musicale entrano nella vita di tutti e questo accade nel bene e nel male. Mi ricordo il mio primo Sanremo, poiché ci fu una cosa che mi sorprese e sulla quale – adesso - ironizzo molto. Nella vita di ognuno di noi ci sono persone che non ci piacciono e, lì per lì, mi stupì vedere come anche chi ritenevo far parte di questa categoria si commuovesse reagendo al mio brano, mentre nella canzone stessa accusavo certi loro comportamenti. Un piccolo aneddoto per dire che le canzoni sono molto più spavalde ad entrare nella casa della gente di quanto io non lo sia e sicuramente c’è una gratitudine infinita per un disco molto complesso sia da un punto di vista tecnico, sia da un punto di vista contenutistico, poiché si tratta di materiale estremamente vulnerabile ed intimo.

Io non amo citare classifiche quando si parla di musica ma, in questo caso, penso che gli ottimi risultati ottenuti siano un piccolo segnale, sintomo del fatto che questo disco è stato accolto con grande cura ed attenzione e non era affatto scontato, perché quando si parla di dolore bisogna saperlo fare con rispetto e profondità. Il fatto che il mio lavoro sia stato riconosciuto così tanto dal pubblico e che adesso entri così prepotentemente nella loro storia, per me è motivo di grande orgoglio.

Il dolore tende ad isolarti, ti butta in un angolo e tu pensi di essere da solo, ma il fatto che questo disco parli di come quel dolore possa essere condiviso, di come quella solitudine sia soltanto un altro sintomo di esso e non la sua conseguenza, mi fa capire come la paura che provavo nell’avere una storia così unica da temere di non poter più trovare conforto negli altri era una bugia riconducibile alla malattia del dolore; mentre questa storia così particolare può - effettivamente - entrare nella vita degli altri e adesso c’è un’infinita gratitudine per tutte le cose enormi che stanno succedendo.

In una recente intervista hai citato Richard Powers, facendomi tornare in mente Il tempo di una canzone, un suo romanzo i cui protagonisti vengono analizzati in momenti storici diversi, ma sempre riconducendoli ad un tempo specifico. Questo per chiederti come ti senti oggi nel proporre brani che erano già pronti lo scorso anno. Il gap temporale costituisce un ostacolo?

No, non è un ostacolo. Chiunque abbia vissuto questo momento di emergenza sanitaria si è trovato spaesato per diversi motivi: professionali perché, magari, è stato privato del suo lavoro o umani perché privato delle relazioni, senza contare chi ha subito delle perdite e ha dovuto affrontare un argomento ancor più delicato. Nel momento in cui è arrivata la pandemia, io non avevo l’obbligo di fermare questo disco, ma trovavo irrispettoso cantare di dolore, perché lo stavamo tutti vivendo in maniera troppo pulsante ed incandescente. Trovavo fuori luogo anche per me stesso calarmi in un contesto di esibizioni, così ho preferito rimandare anche per la tutela di tutte le persone che hanno collaborato a questo progetto. Allo stesso tempo, ho capito una cosa: questo disco parla di come convivere con l’incertezza ed il dolore. Io l’ho scritto prima della pandemia, ma in quella scrittura c’erano già molti segreti per affrontare e vivere questo momento. La pandemia non è altro che il trauma vissuto dal mondo ed il buio che sta attraversando. Io parlo di come convivere con il buio e il nostro mondo sta proprio cercando di fare questo: trovare una normalità nuova, diversa da quella di prima. Questo per dire che non mi ha spaventato l’averlo dovuto rimandare. Al di là del mio discorso personale, sono due anni che scrivo un disco su come accettare l’imprevisto ed il caso ha voluto che questo album abbia incontrato proprio l’imprevisto del mondo. Io non sono un fatalista, ma voglio provare a trovarci un significato interiore. Non a caso è uscito in questo periodo storico ed io accetto con grande orgoglio l’aver verbalizzato un’emozione che adesso è condivisa da tutti. È un privilegio.

La geografia del buio è uno splendido concept album. Lo è stato sin da subito o lo è diventato pezzo dopo pezzo?

In realtà, un po’ entrambe, nel senso che io ho un approccio alla scrittura estremamente diaristico e non a caso il pezzo che mi ha portato più fortuna è: Il diario degli errori. La scrittura musicale mi serve proprio per verbalizzare e cristallizzare dei momenti di vita che altrimenti non riuscirei né a decifrare né a dar loro un titolo. Questo “titolo” l’ho trovato facendo un disco. L’idea del concept mi è cara anche da ascoltatore, perché mi piacciono dischi con una globalità contenutistica, sonora e che racchiudano un mondo omogeneo e coerente. Non sono un grande fan di album in cui si vuole sperimentale più elementi, perché mi sembra di ascoltare prodotti isterici, impossibili da controllare. Amo lavori con un proprio taglio, una chiara linea editoriale che può essere anche rischiosa, se vogliamo, ma netta.

Una cosa che dicevo sempre, tempo fa, anche in maniera un po’ arrogante è che la musica non unisce, divide. Una provocazione, certamente, ma atta a sottolineare che quando un disco riesce a dividere le persone significa che sta andando a toccare esattamente il pubblico che voleva, le persone la cui sensibilità era indicata nel momento in cui si stava scrivendo. Sapere che io sto incontrando le sensibilità giuste è una cosa che mi piace molto ed il fatto che sia un concept ne è causa e conseguenza allo stesso tempo. In questo disco, ovviamente, l’analisi del concept è molto più forte e consapevole rispetto ai precedenti, perché ho avuto modo di vivere il mio dolore con una lente di ingrandimento buttata addosso, poiché nel momento in cui ho affrontato un percorso di terapia (di cui io parlo senza troppo pudore all’interno del disco) è stato un dispendio di energie veramente grandi e nella mia vita non c’è stato altro per tanto tempo: non c’erano le amicizie, non c’era l’amore. C’era un’unica tematica: il mio percorso nel buio e proprio per questo approccio diaristico la scrittura ha percorso quella via. Quando ho iniziato a decifrare le cose che stavo vivendo, mi sono accorto che quel disco era un concept.

A questo proposito, in conferenza stampa, ho raccontato un aneddoto da cui è nato anche un po’ La geografia del buio. Finisco di scriverlo, viene rimandato per la pandemia, si immobilizza ed io incontro Diario di un dolore di C.S. Lewis, una sorta di diario rivolto a se stesso per rielaborare il lutto della moglie e, nelle ultime pagine di questo classico, Lewis fa riferimento a quello che lui chiama “l’orientamento dell’afflizione”, ed afferma che - quando si parla di dolore - non si parla di uno stato, ma di un processo e quindi non serve un evento, serve una storia ed è esattamente ciò che è accaduto con questo disco: la scrittura è stata inconsapevolmente un processo, inconsapevolmente una storia ed il fatto che sia diventato un concept l’ha verbalizzato Lewis molto meglio di me, perché - inevitabilmente - volendo affrontare un percorso nel buio, dovevo raccontare dei capitoli che piano piano si evolvevano.

Sei molto legato al termine “inclusione”. Vorrei sapere se è un concetto al quale badi in fase di scrittura. Ricollegandoci alla prima domanda: pensi al momento in cui le tue canzoni saranno di tutti e ti regoli di conseguenza, oppure no?

Me ne preoccupo da un’altra prospettiva, nel dispiacermi se qualcuno che sta ascoltando la mia musica non si sente in grado di accedere o non percepisce il permesso di entrare in quella storia perché troppo autoriferita o chiusa. Me ne preoccupo chiedendomi: Se io scrivo questa cosa chiunque la capisce? Chiunque sente che sto veicolando un certo messaggio utilizzando determinate parole? Quello che voglio dire è quello che viene inteso? Voglio che le persone che ascoltano la mia musica si sentano in un luogo sicuro e protetto, libere di amare, di essere. Su questo io pongo tanta attenzione e tenevo che questo disco ed il dolore di cui parla accogliessero ogni tipologia di dolore. Mi capita molte volte di sentirmi dire: “Non avendo sofferto come te, mi sento in difetto ad ascoltare questo lavoro”, ma quando si parla di dolore non c’è una classifica, si parla sempre la stessa lingua. Questo non vuol dire che il mio dolore possa diventare condivisibile, ma il creare un luogo accessibile ad ogni dolore, a tutti i momenti di buio è un’attenzione che ho sempre e non solo nella musica, in tutto il mio percorso.

Questo disco vuole anche rompere lo stigma che c’è dietro il trattamento del dolore, della salute mentale e della propria cura. Mi sono scagliato tanto contro un certo tipo di ironia negativa che troviamo sui social e alle battute di cattivo gusto che chiunque può fare; ma in virtù di tutte le diverse realtà con cui abbiamo a che fare una frase non ponderata può colpire e urtare la sensibilità di qualcuno. L’attenzione con cui dovremmo rivolgerci al mondo è quella che io devo mettere nella scrittura. È molto più importante di come poteva essere nel mondo prima dei social. Con più realtà da abitare, la sensibilità deve essere ancora più grande nel relazionarsi con l’altro.

Conoscere il peso della parola è fondamentale, specialmente in riferimento ai social. Con un amico puoi lasciarti andare ad un linguaggio che è vittima della confidenza, sui social no. È un ambiente troppo grande per la leggerezza della parola parlata e troppo piccolo per il peso della parola scritta e questa codifica non è mai completa, per cui delle volte si esagera e delle volte si subisce una leggerezza che è potenzialmente lesiva. Occorrerebbe, semplicemente, iniziare a calibrare le parole. Senza regole scritte, porre un’attenzione propria nel capire se si sta urtando la sensibilità altrui. Se la risposta è sì, allora è meglio tacere. Se è no, allora si può condividere.

Concludo chiedendoti qualche dettaglio sulle date dei live da poco annunciate. Come ti stai preparando e come sei coinvolto nella messa in scena dello spettacolo?

Questi concerti sono una promessa tra me e il mio pubblico per dare un segnale alla musica dal vivo, dichiarare la possibilità di tornare in un teatro. Per quanto riguarda la parte creativa, è uno spettacolo al quale stavo già lavorando l’anno scorso. È un disco che mi ha dato e, conseguentemente, uno spettacolo che mi darà la possibilità di lavorare con grandi professionisti.

Due anni fa mi sono esibito in date che mi hanno aperto gli occhi sul tipo di creatività che mi piace portare sul palcoscenico e li chiamo spettacoli e non concerti, non a caso. All’epoca incontravo di nuovo il pubblico dopo tanto tempo e lo spettacolo era un crossover tra concerto e prosa, con lunghi monologhi tratti da La vita non è in ordine alfabetico di Andrea Bajani che si univano perfettamente alle mie canzoni.

Questa volta stiamo rivedendo lo spettacolo in generale, perché era pensato per un’altra tipologia di ambientazione. Questa volta sarà un’esperienza nel buio. Mi piace usare la parola spettacolo perché vorrei proprio che le persone vedessero un sipario aprirsi e potessero entrare in un mondo diverso da quello che conoscono - per tutta la durata - e poi, con lo schiudersi della scena, portare nella loro vita gli elementi che hanno percepito come più luminosi all’interno dello spettacolo stesso.