Lucio Dalla per me all’inizio è stato un pezzetto di testa, tra l’altro quasi completamente coperta da un basco di lana. Finiva al bordo inferiore degli occhi, in una foto in bianco e nero, stampata sulla copertina di una cassetta da infilare nell’autoradio della macchina del mio babbo. Una scritta rossa, in minuscolo, non un capolavoro d’inventiva: dalla. Era un album del 1980, che chiudeva un sestetto di dischi meravigliosi, che vanno necessariamente divisi in due terzetti, o due trilogie come si dice in questi casi.

La prima: 1973, Il giorno aveva cinque teste; 1975, Anidride solforosa; 1976, Automobili.
La seconda: 1977, Com’è profondo il mare; 1979, Lucio Dalla; 1980, Dalla.

Qualche settimana fa, il 4 marzo, che come sanno tutti è il compleanno di Lucio Dalla, mi ha spinto a ragionare su uno snodo preciso della sua carriera e della sua discografia, quello che – appunto – porta dalla prima di queste due trilogie, cioè i tre dischi composti insieme al poeta bolognese Roberto Roversi, alla seconda, cioè quella in cui Lucio Dalla decise di scrivere da solo le parole delle sue canzoni. Un po’ perché per tutti e sei i dischi si tratta di alcuni tra i più belli mai usciti in Italia, un po’ perché senza i primi tre, non ci sarebbero stati gli altri tre, o sarebbero stati molto diversi, e l’intera produzione di Dalla sarebbe stata molto diversa. O forse, come diceva lui, senza Roversi avrebbe fatto l’idraulico.

Allora, per spiegare la mia riflessione (che non è certo un inedito o una scoperta, sia chiaro) sul tema appena inquadrato, direi di fare così: ci mettiamo a cantare una canzone, che è la prima finita su un disco con il testo di Dalla, e anche una delle migliori, Com’è profondo il mare. Provate anche voi con me, aiutandovi con la musica che trovate in fondo al pezzo, se non ve la ricordate a memoria.

Siamo noi, siamo in tanti
Ci nascondiamo di notte
Per paura degli automobilisti, dei linotipisti
Siamo i gatti neri, siamo pessimisti
Siamo i cattivi pensieri
E non abbiamo da mangiare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare.

Probabilmente vi siete già accorti che la canzone presenta qualche asperità, e che cantare l’attacco del Ragazzo della via Gluck è parecchio più facile.

Babbo, che eri un gran cacciatore
Di quaglie e di fagiani
Caccia via queste mosche
Che non mi fanno dormire
Che mi fanno arrabbiare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare.

Già sulla caccia alle quaglie e ai fagiani avrete pensato di lasciar perdere, ma poi sui due versi successivi vi sarete rimessi in sella a questo toro meccanico, pensando che non sia poi così impossibile da cavalcare. E invece poco dopo finirete col culo per terra, perché molto difficilmente riuscirete a non incespicare nelle parole quando si tratterà di cantare:

È inutile, non c'è più lavoro
Non c'è più decoro
Dio o chi per lui
Sta cercando di dividerci
Di farci del male, di farci annegare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare.

I pochi superstiti, infine, diventeranno silenziosi subito dopo, perché resuscitare i morti e spalancare prigioni bloccando sei treni con i relativi vagoni è una cosa che può riuscire solo a Dalla, e a pochi altri coraggiosissimi.

Con la forza di un ricatto
L'uomo diventò qualcuno
Resuscitò anche i morti, spalancò prigioni
Bloccò sei treni con relativi vagoni
Innalzò per un attimo il povero
A un ruolo difficile da mantenere
Poi lo lasciò cadere, a piangere e a urlare
Solo in mezzo al mare
Com'è profondo il mare.

Credo che la dimostrazione sia sufficiente, anche perché dopo, tra catene e bastonate, diventa ancora più difficile. Lasciate pure correre la canzone, e proviamo a capire come ha fatto Dalla ad arrivare fin qui, a costruirsi da solo scale cubiste con i gradini tutti diversi fra loro, ognuno a una distanza differente da quello che lo precede, scivolosi e fragili. Quasi certamente lo ha fatto perché, appunto, glielo ha insegnato Roberto Roversi.

Roversi ha costretto Dalla a cantare testi quasi impossibili da cantare. Per esempio, Alla fermata del tram, il secondo pezzo del primo album scritto in coppia, in cui Dalla non ci prova nemmeno a cantare nel senso canonico del termine, e grida una strofa dopo l’altra come se gettasse secchi di vernice su un muro, trasformandoli in parole di senso compiuto. A un certo punto la voce diventa uno strumento a percussione, un assolo di batteria, una specie di scat che è anche un’installazione artistica in tema con la canzone.

L’apertura dell’album successivo, Anidride Solforosa, illude, perché nei primi tre secondi le parole si dondolano placide sulla melodia, e sono solo tre:

Sono andata via.

Dopodiché, nei quattro secondi successivi, Dalla spara una raffica di undici parole, accatastandole una sull’altra prima di riprendere fiato:

Perché rimanere sempre a Faenza non è che mi interessasse troppo.

Sei sillabe prima, ventuno sillabe (10+11) dopo.

E la canzone continua in una serie infinita di frenate e accelerazioni, una specie di recitativo che fa da overture a questo disco magnifico. Ora, naturalmente, tenere la contabilità delle sillabe e delle parole, e misurare la difficoltà nell’esecuzione, non avrebbe molto senso se non considerassimo il risultato finale, e cioè appunto le canzoni straordinarie che ci sono tra questi solchi, un incastro perfetto per quanto difficile e pericoloso, tra musica e parole. Non solo una perla capace di sciogliere il cuore di una statua di marmo come Tu parlavi una lingua meravigliosa (che per inciso è in assoluto uno dei vertici dell’intero canzoniere di Lucio Dalla) ma anche tutto il resto, come Non era più lui, o la clamorosa Ulisse coperto di sale, una specie di cavalcata prog tra marcia e adagio, e perfino una lista incantabile come La borsa valori, che dimostra, leggendo le quotazioni azionarie, quanto poco a Dalla e Roversi in quel momento interessasse la commerciabilità di un disco, che se ci si pensa è una performance di perfezione assoluta, visto che si parla appunto di quotazioni azionarie. Non si tratta solo di musicalità e di equilibrismi nella metrica, ma anche di quanto la musica comprenda, completi e consegni all’ascoltatore il senso delle parole di Roversi.

Il successivo Automobili è un altro capitolo imperdibile, ma sta anche all’origine dei dissidi tra Dalla e Roversi, perché nel lavoro di trasposizione tra lo spettacolo dal vivo (Il futuro dell’automobile) e il disco, alcuni dei compromessi o degli accordi che Dalla prese con la casa discografica (che comprendevano il taglio di cinque canzoni) convinsero Roversi a chiudere la collaborazione, nonostante la presenza di due classici indistruttibili come Nuvolari o la preveggente Il motore del duemila, o dell’apertura (parzialmente autocensurata rispetto alla versione live) che è Intervista con l’Avvocato.

Da qui in poi Dalla resta solo, e decide di rischiare con le sue parole. Roversi è scettico, evidentemente non lo considera pronto o abbastanza talentuoso per poter scrivere testi che rimangano sullo stesso livello di quei tre lavori in coppia. Invece quando esce Com’è profondo il mare lo ascolta, e ci ripensa.

Nei tre album che arrivano nei successivi tre anni, Dalla mette in fila alcune delle sue canzoni più celebri e amate. Quella di cui ho riportato ampia parte del testo qui sopra, naturalmente, ma anche, dallo stesso disco, Disperato erotico stomp o un capolavoro come Quale allegria, e ancora di più, se parliamo di pezzi di storia, nel successivo Lucio Dalla, in cui ci sono praticamente solo classici, ma alcuni (Milano, Anna e Marco, Cosa sarà e L’anno che verrà) stanno davvero nella memoria collettiva di una nazione, non solo in quella di chi ascolta Dalla, e nemmeno di chi ascolta musica.

Quando arriva a Dalla, nel ’79, ormai Lucio ha codificato un suo stile. La capacità unica di modulare l’uso della voce tra melodie delicate e rincorse che schiumano frenesia, in cui spesso le parole diventano suoni, a volte perché non hanno un significato, in un trionfo di consonanti, a volte perché lo superano diventando piccoli monumenti fonetici (per esempio, quel “Brrrrrrrrioschi” in La borsa valori).

A questo stile e a questa padronanza delle parole, della voce, della musica, del respiro, Dalla, che intanto cominciava a cantare anche canzoni più facili ma non per questo più dozzinali, ci era arrivato proprio grazie al percorso fatto con Roversi, e questa è la riflessione che ho fatto intorno al 4 marzo e che avevo voglia di proporre.

Dalla, l’ultimo del sestetto, è ancora una volta pieno di canzoni indimenticabili e famosissime (basterebbero Balla balla ballerino e Cara, o il gioiello La sera dei miracoli), così tanto che è superfluo parlarne, e si chiude con una pietra miliare, Futura.

Lascio qui un po’ della prima strofa, che di parlare di futuro e di sforzarsi di vederlo, probabilmente, non c’è mai stato così bisogno.

Chissà, chissà domani
Su che cosa metteremo le mani
Se si potrà contare ancora le onde del mare
E alzare la testa.