Prima dj, poi speaker in radio, infine tecnico del suono e soprattutto produttore, facciamo quattro chiacchiere con lui.

Quanto ha contato – e quanto conta ancora – un passato tra consolle e microfoni nell’attività in studio di registrazione?

Tutto serve, le esperienze in campo artistico e nei media hanno giocato un ruolo rilevante per accrescere il bagaglio di conoscenze che mi porto dentro e che continuo ogni giorno ad aggiornare.

La radio mi è servita per capire come relazionarmi con i musicisti. Ho avuto l’opportunità di vedere gli artisti da dietro le quinte e ho potuto capire tutto quello che c’è dietro la promozione e la distribuzione di un brano. Seppure non sia il mio settore, studiare come un prodotto musicale venga promosso al meglio, fa sempre parte delle conoscenze che possono tonare utili per svolgere al meglio il mio lavoro.

Invece l’esperienza da dj è servita come anteprima alle tournée che avrei vissuto successivamente in veste di fonico/manager per le band. Era un ambiente incredibile il mondo dei club dei primi anni 2000 ed ho avuto anche la fortuna di conoscere produttori e colleghi che poi ho rivisto in veste di produttore.

Ogni esperienza in qualsiasi campo è utile per poi applicarla al lavoro che si fa. La curiosità è ancora alla base del mio lavoro.

Studio 2 dal 2011 è stato il primo recording studio ad essere anche live club in Italia. Non solo luogo di incisione ma anche ambiente performativo. Come mai questa scelta?

L’idea è venuta dal primo studio che ho avuto, uno studio “casalingo”, dove ogni sera si suonava tra amici e il giorno dopo si registrava. Io e i tre soci dell’epoca abbiamo pensato che fosse una buona iniziativa da fare su scala nazionale. Così è stato. In quattro anni di attività hanno suonato da noi più di cento artisti, molti dei quali poi hanno avuto moltissimo successo e altri ora li produco. La filosofia era di mantenere dei prezzi accessibili anche con artisti che avevano delle grosse produzioni, giocandoci la carta del concerto intimo, che venne molto apprezzato dai nostri spettatori. Sono stati quattro anni davvero intensi e ricchi di soddisfazioni, ma poi ho pensato di dedicarmi a tempo pieno al mio lavoro principale, la registrazione e la produzione artistica.

Studio 2 è rinato nel 2015 rafforzando l’area della registrazione: quali sono le peculiarità tecniche e “filosofiche” di questo studio?

Il cambiamento attuato nel 2015 è stato radicale. Abbiamo sospeso l’attività live focalizzandoci sulla registrazione e produzione. Ovviamente lo studio rispecchia molto le mie attitudini musicali personali. La filosofia è quella di mettere gli artisti nelle condizioni di poter esprimere il meglio di sé, grazie al luogo e ai mezzi. Lo Studio 2 è una sorta di ibrido. Infatti, possiede una folta lista di strumenti e outboard analogici e vintage, ed è costantemente aggiornato a tutte le ultime uscite in campo digitale, dai plugin ai processori, fino ad arrivare ai virtual instrument. Lo studio deve essere un luogo che ispira e che faccia sentire a casa gli artisti che vengono a lavorare con noi. Capita molto spesso che i musicisti inizino a strimpellare con qualche strumento che abbiamo a disposizione e che nel giro di qualche ora comincia a prendere forma un nuovo brano che non era stato pensato fuori dallo studio. Personalmente trovo molto interessante questo processo di creazione, quasi estemporanea e imprevedibile.

Abbiamo accennato alle peculiarità “filosofiche”, senza dubbio un produttore imprime la sua personalità e il suo spirito – anche nel fare un passo indietro – all’opera alla quale sta lavorando. Quale approccio alla realizzazione di un album ha Cristopher Bacco?

Il mio approccio parte dal lato umano, voglio conoscere l’artista e ascoltare assieme i provini che ha da proporre, capisco subito se ho affinità. Una volta trovata la sintonia cerco di capire in che direzione vuole portarmi quel brano, e con massimo rispetto, cerco di produrlo ed arrangiarlo in funzione a quello che mi trasmette. Il percorso di produzione parte prima di entrare in studio, facendo delle prove assieme ai musicisti, fino a scegliere gli strumenti migliori per entrare in studio. Molte volte capita che devo fare i salti mortali per trovare degli strumenti adatti, ma li trovo e ci sentiamo a nostro agio. Una volta capita la direzione e scelti gli strumenti, si abbozza l’arrangiamento che poi andrà ultimato in studio.

È molto importante non porsi delle barriere e restare aperti a qualsiasi influenza prima di arrivare alla parte finale della lavorazione del brano con il mix. Ovvio che bisogna darsi dei limiti, ed è in questo che dev’essere bravo il produttore: fare le scelte giuste. La produzione sta nell’equilibrio e nel feeling con l’artista. Se si è nella stessa lunghezza d’onda le canzoni escono da sole.

Hai lavorato per artisti diversissimi tra di loro, da Bobby Solo ai Winstons, da Fabio Cinti a Marco Cocci, o Roberto Dell’Era. Qual è il segreto per un produttore affinché il suo marchio resti impresso a prescindere dai generi e dall’esperienza dell’artista?

Per prima cosa bisogna avere un background di ascolti molto ampio e sentirsi in sintonia con gli artisti con cui si lavora, se li si conosce ormai da tempo, meglio. Nel caso degli artisti citati, alcuni li conoscevo da anni prima di lavorare assieme, altri invece mi hanno contattato e ci siamo trovati subito in sintonia. Mi capita spesso di lavorare anche con artisti molto diversi dal mio stile, in questi casi la prendo come una sfida e cerco di informarmi e studiare il più possibile per dare il massimo in quell’ambito.

Lavorare con artisti sempre diversi fa sì che acquisisca abbastanza competenze che tornano utili per la realizzazione di altre produzioni. C’è da dire però che bisogna riconoscere i propri limiti e a volte rinunciare, magari anche solo perché non è il periodo giusto oppure perché proprio non si è affini. Se si prendono lavori non consoni si rischia di scadere molto con la qualità ed il sentimento, e si sente. E lo sente anche l’ascoltatore.

A proposito di Bobby Solo, l’artista più noto con cui hai lavorato di recente, Good In Blues è stato un disco coraggioso perché diverso dal solito e prodotto in analogico. Ha senso, in un periodo di musica liquida e smaterializzata, produrre un disco “vecchio stampo”?

Lavorare con Bobby è un grande onore, lui mi ha dato moltissima fiducia, che da uno della sua esperienza non è per nulla scontato. Volevamo fare un disco Blues, che poi con la produzione ho cercato di contaminare anche con un po’ di Funk e di Soul, cose molto affini a Bobby. Il processo è stato volutamente “old school” altrimenti si rischiava di non essere credibili, e si rischiava di fare una brutta copia del Blues americano. Avevamo in comune Tony Joe White come ascolti, essendo uno dei suoi idoli ce la siamo cavata molto bene. Qui, la scelta più importante è stata quella dei musicisti e dei microfoni, perché il suono doveva essere già perfetto. Il mix di conseguenza è venuto naturale come l’arrangiamento.

Hai avuto modo di lavorare anche ai mitici Abbey Road: cosa si impara in un luogo del genere?

La prima volta che si varca quella porta si resta quasi paralizzati. Ho avuto l’onore, le varie volte che ci sono stato, di lavorare nello Studio 3 e negli studi di mastering con Stefano Civetta ed Alex Wharton. Si impara che non ci sono magie o trucchi, ma che l’orecchio è sempre al primo posto, come la professionalità.

La differenza rispetto ad altri studi di registrazione è che ad Abbey Road si ha a disposizione qualsiasi strumento/outboard esistente, funzionante e con persone competenti che lo sanno usare. Per la storia che possiede questo luogo, quando si entra si percepisce subito un’energia incredibile. Di conseguenza con questo mood positivo è molto più semplice produrre cose magiche. Ne vale la pena.