L’uomo si inganna da sempre sulla natura del cigno. È quanto sostiene Socrate all’interno di un lungo dialogo sull’anima che egli intrattiene nel Fedone platonico. Per sua natura l’essere umano è infatti portato a credere che il canto estatico che l’uccello intona prima di morire sia espressione del dolore che gli causa il pensiero della morte. In realtà, come spiega il filosofo, il cigno pregusta la felicità del “dopo” ed è questo che lo rende un simbolo di preveggenza e lo consacra ad Apollo, dio del Sole e del canto poetico.

Nel 1895, a San Pietroburgo, nello splendido Teatro Mariinskij dalle indescrivibili tonalità azzurro e oro, va in scena - per la prima volta con successo - Il lago dei cigni. La sua partitura musicale, oltre che parte della trama e l’epilogo nella sua prima versione, era stata scritta dal genio di Pëtr Il'ič Čajkovskij, scomparso prima di poter raccogliere gli onori tributati al suo capolavoro.

Quella che ospita il Teatro Mariinskij è la scenografia di un balletto che nei suoi atti più incisivi e celebri è tipicamente “lunare” e che tale nel tempo è rimasta, così come si conviene alla tradizione del ballet blanc. Il bianco, con tutta la gamma delle sue indefinibili nuances, è infatti il colore scenico che meglio ha reso possibile nel corso della storia la rappresentazione di un mondo invisibile e fantastico, diciamo meglio etereo.

Sembrerebbe, dunque, ad un primo riscontro, che la tradizione filosofica e artistica abbia accordato al cigno una natura per lo più contraddittoria che lo vorrebbe ora uccello solare e maschile al seguito di Apollo - o incarnazione di Zeus nel famoso mito di Leda - ora, per il tramite di una tradizione di area germanica, peraltro seguita dallo stesso Čajkovskij e da Wagner, uccello lunare e femminile.

Se torniamo al Fedone, però, e leggiamo le parole di Socrate attraverso le meno note declinazioni alchemiche che sin dall’antichità hanno coinvolto gli scritti di Platone, riusciremo forse a intendere come la simbologia del cygnus sia in realtà molto più complessa di quanto possa apparire a una prima lettura. La natura solare dell’uccello non è infatti separabile dalla sua natura lunare: l’una è contenuta nell’altra in modo intercambiabile.

Socrate non ha dubbi e la cosa è ben nota anche ai divulgatori del pensiero platonico: l’anima esisteva prima di prendere un corpo e pertanto esisterà anche dopo. Ciò che sfugge però quasi sempre ai commentatori è che l’anima socratica è composta – allo stesso modo del corpo – dalle quattro qualità elementari che le conferiscono la sua natura individuale e specifica e fanno in modo che essa venga per lo più attirata da ciò che è più simile alla sua forma essenziale, nello stesso modo in cui agisce il corpo fisico. Ciò che essa deve raggiungere, superando la difficile commistione degli elementi, è, secondo Socrate, una sostanza pura che egli definisce “sostanza uniforme”.

Nel repertorio formulare alchemico, che è debitore della cosmologia platonica e aristotelica, al di sopra - e al di là - dello stato frammentario dei quattro elementi della terra, dell’acqua, dell’aria e del fuoco esisterebbe un quinto elemento definito per lo più con il termine di “etere”. Esso, se vogliamo dar credito alla formulazione di Aristotele, è così detto in quanto aeì theĩ: “corre sempre”. Se vogliamo invece prendere in prestito le immagini del medico e filosofo seicentesco Robert Fludd, la sostanza eterea si manifesterebbe nella forma di un “vapore purissimo” e di una “nebbia sottilissima”. Essa, comunque, sarebbe il misterioso prodotto della congiunzione dei due principi fondamentali della natura: il solare e il lunare.

Com’è noto, la successione più vulgata delle fasi dell’opus alchemico conosce un’opera al bianco, detta albedo. Meno noto è forse che essa, nei testi dei filosofi, assume spesso come suo uccello simbolico proprio un cigno. Nella sequenza delle fasi operative il bianco è una variante cromatica della materia posteriore al nero e conseguente all’iridescente coda di pavone. Nei testi la sua comparsa è sempre motivo di “gioia” per i filosofi che, prima di ottenere il metallo aureo, devono pur arrivare a produrre la sua controparte lunare mediante la macerazione della materia di partenza. È allora che con trepidazione essi vedono affiorare sopra un “lago d’argento” quello che chiamano “cigno”.

Ai primi teorizzatori del balletto non dev’essere sfuggita l’origine ermetica del bianco e dell’etereo ad essa connessi. Veicolo di trasporto intermondano non solo nel balletto, ma anche nel racconto graalico del Lohengrin, ripreso poi da Wagner, o nei racconti di Musäus e di Puskin che hanno ispirato Čajkovskij, il cigno bianco “affiora” da un altro mondo come medium, come mezzo di contatto tra il mondo degli elementi e quello sovra-elementare da cui proviene e a cui, a quanto sembra, è destinato a tornare. Non prima, però, di aver vinto il nero.

Ciò che nel balletto risulta straordinariamente attiguo alle scienze ermetiche è che se all’azione dell’etereo, di cui il cigno bianco è sigillo, viene in genere spontaneo attribuire un’evanescenza senza peso e un’impalpabilità senza causa, è invece proprio grazie al compromesso con il “peso” che il ballerino giunge ad ottenere la sua leggerezza, così come il principe Sigfrido può infine ritrovare il cigno bianco solo dopo aver superato la prova impostagli dal cigno nero.

Se dunque restiamo incantati dalle linee in movimento che così mirabilmente appaiono librarsi nell’aria come riscattate dalla gravità, dobbiamo pur sapere che è proprio dal peso imposto da quest’ultima che esse traggono lo slancio necessario per liberarsi dalla forza discendente. Unendo l’alto e il basso i danzatori trovano la porta di accesso all’equilibrio.

Il “senza corpo” deve prima passare dal corpo. La protensione aerea - o aurea - di qualsiasi arabesque deve prima accogliere il filo a piombo del busto che la affonda per potere salire. Il bianco nasce dal nero. Il leggero dalla gravità. E non c’è modo di salire se non scendendo.

Ma come tutto questo sia possibile resta ancora oggetto di mistero. D’altronde, come direbbe Isadora Duncan, se si potesse esprimerlo a parole, non si avrebbe bisogno di danzarlo.