Eterna è tutta l'arte dei musei
Carine le piramidi d'Egitto
Un po' naiv i lama tibetani
Lucidi e geniali i giornalisti.

(Franco Battiato, Magic Shop)

Me lo ricordo come fosse ieri. Avevo dieci anni ed ero in vacanza nella nostra casa di campagna. La cassetta della Voce del Padrone consumata dal continuo ascolto si compenetrava con gli odori e il selvaggio dell’estate campestre.

Un senso nuovo di libertà e di stupore di fronte a quella musica originale che tutta l’Italia sembrava aspettare da anni. Non si capivano bene e tutti i riferimenti culturali e intellettuali degli strani testi ma in molti comunque allora capimmo istintivamente, immediatamente: non era solo un cantante, un cantautore come molti altri.

Aveva il tono di un profeta, l’aura di un sapiente. Uno spirito che sapeva elevarsi sopra ogni tempo e ogni spazio e, quindi, riattualizzare e reinventare il senso di ogni tempo e di ogni spazio. Un “angelismo” incarnato e incarnante ma non soggetto ad alcun vincolo in quanto lucidamente consapevole che siamo solo ruscelli senza fonte.

Una disinvoltura mai prima conosciuta intrecciava musiche a parole. Poesia su poesia. L’essenza della poesia, cioè l’azione, l’azione profonda, quella che risuona dentro a lungo.

Una musica che sembrava emergere da un silenzio abissale, gonfio, ricco, non silente e tornare poi carsicamente in un oceano di silenzio.

Ogni canzone differente, aliena, autonoma come una bestia selvatica, una specie nuova e così ogni album, traboccante di colori e sfumature. Il senso sottile ma persistente di una sintassi che si sfuggiva ma presente, reale, sotto una grammatica quale velo metamorfico e sventolante di un corteo immenso di maschere che vogliono vedersi danzare.

Ogni album un viaggio, un avanzare nel deserto, in un labirinto dove l’arte stessa genera da sola la sottile strada. Una voce vicina, intima ma pure che sembra venire da distanze siderali, spiazzante, spiritualmente conturbante. Non cerca di sedurti ma proclama una vastità che attraversa l’esserci mostrandone i paradossi, il ridicolo, l’effimero.

Un canto liberatorio contro ogni retorica, contro ogni “ismo”, contro ogni reificazione e standardizzazione dell’arte come della vita. Una ribellione contro la riduzione della vita alla forma del supermercato, magico o meno che sia.

E ad ogni nuovo album nuovi orizzonti, altre vite, mondi lontanissimi presentati come vivi, palpitanti, fuori dal tempo eppur a noi intimi. La sua arte sembra venire da uno “stato multiplo dell’essere” per dirla con René Guenon, dall’apertura di passaggi a livello tra diversi tempi e diverse stagioni verso nuove frontiere dello spirito.

Canta all’ombra della luce, un’ombra luminosissima e discreta, stretto come un cammello in una grondaia, come una torre nella Via Lattea, grido sotto o sussurro di lieder al chiaro di una luna indiana. Un situazionismo meta-situazionistico che tende il vuoto verso l’Essere e l’Uno attraverso la tragicomicità del frammento e del non senso sociale-esistenziale dell’individuo occidentale.

Un’arte che è continua inesausta ricerca su un terzo fattore, invisibile ma vivo, irresistibile richiamo all’anima. Possiamo definire la sua arte un surrealismo organico-spirituale, per i continui accostamenti tipo ombrello-macchina da cucire intessuti con le sacre sinfonie del Tempo? Sì ma ogni definizione della sua musica sembra riduttiva come una bandiera bianca. Da una sua palpabile amata solitudine il Tao di Franco appare e si vela in mille rivoli di vite parallele che entrano ed escono da una “personalità empirica” che invita sempre al viaggio. L’ermeneutica sull’uomo-opera chiamato F.B. non può che lasciarsi iniziare dall’interno, dall’immersione. Franco sembra sempre chiedersi stupito: “Io chi sono?”, mentre vola sempre oltre la maschera del proprio volto e della propria aurora.

Sequenze e frequenze di uno spirito assetato di vita da un Tibet che abbraccia tutto.
Torneremo ancora.
Nel cosmo.