C’è un filo sottile che unisce la musica e i Diritti Umani che spesso ci sfugge, anche se decine di compositori mettono in versi il disagio di questo mondo che chiede il nostro aiuto. Non dimenticheremo facilmente le parole con cui un maestro come Franco Battiato, recentemente scomparso, ha scelto per descrivere la bellezza delle minoranze, la solidarietà e la pace, la cura e l’amore tra gli esseri umani ed ha spiegato in poesia il sentimento dell’uguaglianza e la violenza del comando.

“Com’è misera la vita negli abusi di potere…” era una strofa di un suo brano molto famoso, che risuona nella mente ogni volta che scopriamo la durezza della vita di chi è perseguitato da un dittatore, da una setta religiosa o da un regime dispotico, spesso camuffato da simboli democratici. Capita molto spesso che la miseria del genere umano si manifesti attraverso l’accanimento verso una persona, per impedirgli di esprimere liberamente le proprie idee; e molto spesso le vittime sono uomini o donne assolutamente inermi, innocue, armate solo di un pensiero chiaro e comprensibile che sfida la propaganda di regimi totalitari e l’urlo dei suoi media. Ed è sorprendente scoprire che in questi casi la legge non protegge i più deboli, ma diventa strumento di tortura e di giustificazione di pratiche poliziesche e repressive per tacitare il dissenso.

E’ la conferma che le idee sono l’unico detonatore per ridurre all’impotenza i criminali che governano la ricchezza del mondo. E allora il pensiero corre alle Madres de Plaza de Mayo di Buenos Aires che, alla fine del Novecento, hanno saputo difendere la memoria dei loro figli “desaparecidos” e riportare l’Argentina sulla strada della democrazia, senza sparare un colpo d’arma da fuoco, soltanto sfilando silenziosamente sulla piazza antistante la Casa Rosada, sede del Governo, tutti i giovedì pomeriggio, per quarant’anni, fino ad accompagnare al carcere i torturatori dei loro figli e vederli morire di morte naturale, in galera, condannati da un giusto giudizio. Un esempio di lotta pacifica e determinata, ma al tempo stesso un modello di come realizzare compiutamente la democrazia, senza vendette e senza moltiplicare violenze. Oggi tutto ciò ci appare come il giusto combinato di legge e civiltà, di democrazia partecipata, che non si accontenta dei tribunali ma esercita il suo potere vigilando e sollecitando le funzioni dello Stato.

Ai nostri giorni, le voci di denuncia delle persecuzioni, nel mondo, sono tantissime perché nonostante la fine della guerra fredda, altri meccanismi di potere governano il mondo cosiddetto “globale” e costringono decine di Paesi poveri a concedere le loro ricchezze naturali (e le loro braccia) a lobby trasversali che sfruttano il suolo, il sottosuolo e le acque, mercificando i cosiddetti Beni Comuni. La resistenza a queste rapine non sono più meramente ideologiche, ma ad opporsi sono partigiani dell’ambiente che spesso cadono vittime di rappresaglie e diventano eroi per avere difeso una foresta, un corso d’acqua, un campo di grano. Impensabile fino a trent’anni anni fa. E questo non accade soltanto nei Paesi poveri, nell’Africa nera, nel sud est asiatico o in Amazzonia, dove la natura può ancora offrire scampoli di risorse intatte, purtroppo è ormai un allarme anche europeo, occidentale. La sfrenata corsa all’appropriazione delle terre, il land grabbing non riguarda l’Africa, ma anche nei nostri Paesi ricchi, sedicenti democratici e il bilancio ambientale è drammaticamente in rosso; la conseguenza visibile di ciò è la svendita del suolo libero, il consumo illimitato di acqua, l’accumulo di rifiuti tossici, la frana delle colline e dei ghiacciai.

In fondo, la stessa pandemia non è altro che un esempio eclatante dell’impatto di questo squilibrio persistente tra uomo e natura, tra economia e diritti. Ma sembra che il mondo abbia altro a cui pensare e la corsa al consumo di tutto prosegue imperterrita.

Anche il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, cartina di tornasole di tante trasformazioni globali, ha segnato questi anni con le sue edizioni e con le sue campagne di sensibilizzazione e continua a segnalare che i veri profeti di futuro, i nuovi filosofi del mondo moderno, sono gli ecologisti e i perseguitati politici contro cui i governi di mezzo mondo sperimentano pratiche persecutorie e di accanimento giudiziario, per avere mano libera nello sfruttamento di ciò che serve al modello di sviluppo globale, ormai fuori controllo. Per questo, l’edizione del 2021 del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, intitolata “Persecuted”, proverà a raccontare, dal 10 al 20 novembre, storie di registi, poeti, intellettuali ma anche contadini ed operai, che scoprono di essere nel mirino dei governi del loro Paese, in Bielorussia come in Afghanistan, in Palestina, in America Latina e in India come in Europa, per avere chiesto di lasciare vivere la loro terra e non distruggerla per costruire una diga, una strada o una galleria per il treno. Già, anche l’Europa, che è un faro di civiltà e un esempio per tanti asiatici ed africani che accettano di mettere a rischio la propria vita e quella dei loro familiari, per sbarcare in Italia e cercarsi una vita nuova in Europa, è divenuta una miniera di opportunità per le ultime follie del capitale.

Dov’è finita Chernobyl, chi ricorda più la fede illimitata nell’energia nucleare, nella plastica e nella vendita degli armamenti per difendere la nostra fortezza?

Di questi paradossi parleremo a Napoli, nel prossimo novembre, se la pandemia ci permetterà di rimettere assieme il popolo del nostro Cinema dei Diritti Umani che da due anni ci segue attraverso lo schermo del proprio computer casalingo. Proveremo a far parlare chi è inseguito da un’ombra anche mentre scrive un libro, gira un film o gestisce un bar nelle strade della sua città. A spiegarci come si vive perseguitati, saranno persone coraggiose come il regista Veysi Altay, curdo residente in Turchia, che vive sotto la minaccia dell’arresto per avere raccontato di come le donne curde hanno difeso Kobane dall’assalto delle milizie dell’Isis; o Hassan Fazili che aveva aperto un caffè culturale a Kabul ed è stato minacciato di morte dai talebani, fino a dover fuggire con moglie e figli, a piedi, fino in Germania, per poter vivere degnamente; o Tatsiana Hatsura-Yavorska, che dirigeva un Festival di Cinema dei Diritti Umani a Minsk (Bielorussia) e si è trovata in carcere perché aveva realizzato un reportage fotografico sul Covid nella sua città. Ma daremo voce anche al popolo della Val Susa, in Piemonte, a cui è dedicata la XIII edizione del Festival napoletano, per ricordare che da trent’anni una comunità di 90.000 persone che abitano una valle verde, si rifiutano di accettare che una galleria ferroviaria di 50 km faccia a pezzi l’habitat di un pezzo d’Italia agreste, di boschi e campi ricchi di tradizioni contadine e montane, per creare un improbabile vantaggio competitivo delle merci europee, provocando, invece, un disastro ambientale irreversibile.

In tutti questi casi, la legge è pronta a punire chi protesta, chi fugge, chi assume la responsabilità delle proprie azioni pur non avendo nessuna organizzazione alle spalle, ma solo i propri principi morali e una fede incrollabile nella libertà dell’uomo di agire nel rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti che fu scritta all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.

Il Festival di Napoli 2021 svilupperà una riflessione sul divario tra legge e giustizia, tra principi e regole e sul senso della disobbedienza civile, della protesta pacifica, del rapporto tra Istituzioni e cittadini in un mondo senza controlli e limiti.

Speriamo di essere all’altezza di questo grande confronto e di sapere chiarire le ragioni di chi fugge per difendersi e di chi resta ostinatamente per protestare, entrambi in cerca di una vita più degna di essere vissuta.

Arrivederci a Napoli, Capitale dei Diritti Umani, a novembre, per sentire pulsare il cuore del mondo.