Ci sono fatti decisamente inspiegabili. Vi rassicuro: non sto passando dalla musica a una versione web di Voyager in cui mi interrogo sui cerchi nel grano o sull’indirizzo di casa dello yeti. Il fatto è questo: le zanne della crisi economica continuano a lacerare le carni della nostra economia (sarà sufficientemente pulp come immagine?), i negozi di dischi continuano a chiudere con la frequenza di uno spot con Panariello, mentre Spotify, Deezer e compagnia bella, secondo i più, si preparano a buttare in mezzo a una strada le rockstar di piccolo calibro, elargendo loro compensi da elemosina. Quello appena finito è stato un anno come, almeno per la quantità, non se ne vedevano da lustri. La colonna sonora degli ultimi dodici mesi non sarà come quella del 1967, e nemmeno come quella del 1972, ma state certi che poteva andare peggio, e che se vi sorprenderete a dire: “Ormai non c’è più bella musica nuova” sarà solo per colpa della vostra pigrizia. Non ci credete? Ecco qua una playlist ragionata in ordine sparso che potrebbe convincervi. Oppure spingervi a non leggere più questa rubrica.

Il disco che ha fatto più rumore, anche se a distanza di mesi rischiamo di dimenticarcelo, è probabilmente quello di David Bowie. Era scomparso, è tornato, ed è sembrato subito in grande forma con una raccolta di pezzi di altissima qualità. Per esempio I’d rather be high, che certo non si farà rovinare da una pubblicità in salsa veneziana. Jonathan Wilson deve sempre rispondere all’accusa di retromania, il che fa sorridere in un panorama musicale in cui tutti copiano, in modo molto più disonesto: lui in Lovestrong cita esplicitamente i Pink Floyd di Echoes, ma scrive con la sua penna una canzone strepitosa. Wilson ha avuto anche il merito di produrre uno degli album più convincenti del 2013, firmato da Roy Harper, che toglie la polvere al folk inglese, come in questa January Man.

Ci sono lavori che al risultato finale arrivano per sottrazione. Che non aggiungono una nota o una parola di troppo, che si appoggiano su una semplicità pronta a mettere a nudo ogni difetto. Quando riescono come a Keaton Henson è un piacere per le orecchie e il cuore: 10 am Gare du Nord. Il nome orrendo che si è scelto non deve costare a Phosphorescent una sottovalutazione del suo Muchacho, e l’ascolto di Song for Zula dovrebbe bastare a convincervi. Per restare in ambito cantautorale potremmo passare a Bill Callahan: Dream River è un disco che va ascoltato con attenzione, ma che alla fine conquista, come The Sing, la favolosa apertura.

E’ venuto il momento per un po’ di sano divertimento. Niente di meglio che chiamare in causa i Daft Punk, che in Random Access Memory hanno azzeccato una serie di tormentoni, tutti in fila dietro a Get Lucky. Per questa lista sceglierei Lose yourself to dance. Mezzo giro di manopola verso la raffinatezza e incontrerete il disco degli Stepkids, che si divertono a miscelare, citare, distorcere una marea di generi e influenze, senza mai dimenticarsi che il pop può essere d’autore, come in Sweet Salvation. Se si parla di pop music, però, uno dei dischi che è risuonato di più tra le pareti di casa mia è quello di Mikal Cronin: pesco a caso Peace of mind, che conquista al primo ascolto, ma nel cd c’è un’apprezzabile varietà che merita di essere visitata palmo a palmo. Per tornare nei negozi i Midlake sono passati attraverso una metamorfosi, con l’addio di Tim Smith e il timone (e il microfono) in mano a Eric Pulido. Antiphon è un buon disco, e The old and the young mantiene intatto il timbro della band texana.

Ho sempre seguito poco gli Arctic Monkeys, ma non c’è dubbio che AM sia un disco impossibile da trascurare. Sono alcuni momenti di deriva Black Sabbath, forse, a divertirmi di più, come Arabella. Mark Oliver Everett è il signore e padrone degli Eels. Sono passati molti mesi dall’uscita del suo disco, ma New Alphabet non si fa corrodere dalla ruggine, ed è uno dei tanti episodi piacevolmente fragorosi di Wonderful, Glorious. Tornando in ambito vecchietti, anche sir Paul Mc Cartney ha ricominciato a pubblicare, e con risultati apprezzabili: il titolo dell’album (New) non sarà il massimo dell’originalità, ma se si parla di musica, Queenie Eye rimanda a data da destinarsi il giorno della pensione.

Breve parentesi made in Italy per inserire tre pezzi: Anni di Piombo dei Virginiana Miller (Livorno) e Oh My Monster di unePassante (Firenze) basterebbero per chiarire che la mia Toscana domina incontrastata, anche se dimenticassimo colpevolmente Alessandro Fiori (Arezzo): Giornata d’inverno può essere un utile promemoria.

In un anno Nick Cave ci ha portato addirittura due buoni dischi: prima Push the sky away, poi Live from Kcrw, che testimonia il tour mondiale passato dall’Italia in due riprese: pesco Mermaids. Siamo quasi alla fine. Botta d’energia con lo strano e riuscito mix che ha messo insieme Elvis Costello e l’hip hop dei Roots in un disco che mi riprometto di ascoltare di più nei prossimi mesi, a cominciare da Sugar won’t work. Laura Mvula è la nuova regina inglese del pop-soul, e a me piace la versione live di She. Chiudo pagando un tributo a John Grant: il suo Pale Green Ghosts mi aveva lasciato interdetto per via della molta elettronica, ma sbagliavo, se non altro perché dentro ci sono alcune delle migliori canzoni dell’anno. Glacier, per esempio, è un degno finale per questo articolo e per la playlist del 2013.