All’affermazione di Umberto Eco: “Il giornalista è uno storico del presente”, andrebbe aggiunto il cineasta come storico del presente. Lo vediamo chiaramente al dodicesimo Middle East Now, a Firenze dal 28 settembre al 3 ottobre 2021, in due opere di cinema, quella di apertura e quella della sera dopo.

Film di apertura è Radiograph of a family (Iran, Norvegia, Svizzera, 2020) di Firouzeh Khosrovani, regista iraniana che affronta la lacerazione fra i suoi genitori generata in Iran dalla Rivoluzione Islamica del 1979. La regista aveva allora 7 anni, vissuti in serenità. Poi assiste alla dicotomia fra un padre laico e una madre musulmana praticante. Con l’aiuto dei Super8 girati dal padre, ricreando i dialoghi fra i suoi sulla base di ricordi infantili, Khosrovani ricostruisce la vita familiare sullo sfondo dei cambiamenti politico sociali che la Rivoluzione ha prodotto in Iran. Usando invece filmati d’archivio ricostruisce il periodo che va dallo Scià alla Rivoluzione Islamica, alla guerra Iran-Iraq, su fino ai giorni nostri, documentando in questo modo personalissimo i cambiamenti della società iraniana negli ultimi quarant’anni.

Il film ha vinto due volte ad Amsterdam, il primo premio all’International Documentary Festival come documentario lungometraggio, e il Concorso IDFA per l’uso creativo degli Archivi.

La seconda serata di Middle East Now vede sugli schermi il film The silhouettes di Afsaneh Salari (Iran, Philippines, 2020, 79'), documentario vincitore dello Special Jury Prize al Festival Visions du Réel. Questo film racconta la storia intima di una famiglia di afghani rifugiati in Iran da oltre 35 anni, a causa della guerra civile creatasi in Afganistan a seguito dell’invasione russa nel 1982.

Lo stile di questa regista afgana è molto diverso dal precedente. Lei fa un documentario classico, costruito su riprese in vari momenti del quotidiano di una famiglia composta dai capostipiti e dai loro figli e nipoti, tanti gruppi familiari cementati fra loro, sereni e prolifici malgrado vivano in un Paese che all’inizio ha aperto le braccia ai primi esuli ma, al crescere delle difficoltà, guerra ed embargo, ha drasticamente tagliato i diritti civili a tutti gli stranieri. I personaggi sono belli, accarezzati nella descrizione dalla macchina da presa. I bambini, in particolare, sono ripresi in divertente spontaneità. L’atmosfera è ovattata, i contraccolpi dell’esterno si stemperano nella grande casa accogliente e con l’aiuto dei forti legami familiari. Il figlio più giovane però non si accontenta, vuole crearsi un futuro e si organizza per fare ritorno in Afghanistan. La difficoltà del distacco è descritta da scene in cui il giovane filma col telefonino gli addii dei componenti la famiglia, per portare con sé un ricordo animato dei suoi cari.

Due opere quindi che tessono al femminile, attraverso racconti familiari, la Storia, crudele ed implacabile per Firouzeh, sorgente di inquietudine per Afsaneh, che giovanissima ha abbandonato l’Iran e il razzismo imperante per costruirsi un futuro a Parigi.

Due donne che si sono realizzate, vincono premi, partendo da situazioni non facili. Una goccia di ottimismo cui attaccarsi per lottare per le donne afgane di oggi, risucchiate in patria nel delirio talebano.