Le ferite di una pandemia non ancora debellata hanno lasciato un particolare segno doloroso in una città, come Milano, che ha sempre fatto del dinamismo e di un coraggioso spirito di iniziativa una delle sue peculiarità. La metropoli ha vissuto un frangente che si può considerare il più gravoso dopo gli anni terribili della guerra, tanto più che ancor oggi non abbiamo certezza di aver debellato un virus così invasivo e mutante.

Ora, un po’ semplicisticamente, si parla di “ripartenza”: con questo termine s’indicherebbe un indolore ritorno al pre-Covid, senza fare tesoro di un’esperienza tragica, che dovrebbe anche aprire gli occhi sui nostri errori. Più onestamente bisognerebbe dire “ricostruzione”, per creare su alternative e più sostenibili basi un nuovo modello di vita e di lavoro.

Quando si parla di costruire o ricostruire, il nostro pensiero non può non andare a tutti i milanesi che, dall’inizio del ‘900 in poi, hanno contribuito a fare di Milano, con tutti i pregi e i difetti, il punto focale morale e culturale del Paese.

Tanti milanesi di nascita, ma anche tanti di adozione e necessità, tanto più legati alla città anche per un debito di riconoscenza.

“A Milano si può tutto”, ecco, con questa frase vogliamo proporre la “Storia di un milanese”, figlio di siciliani, di cui corre il trentesimo dalla morte, avvalendoci anche della trascrizione di una lunga chiacchierata registrata poco prima della sua scomparsa.

Guido Ammirata, che il Comune ha nominato “cittadino benemerito”, non era il classico meridionale venuto al Nord a cercare fortuna e lavoro, anzi, la madre era figlia di una nobildonna palermitana, maritata con il fondatore e direttore del Giornale di Sicilia. Ovviamente, aveva ricevuto educazione e istruzione come una giovane di “buona famiglia”, che però non le evitarono la sbandata per un bel playboy dagli occhi azzurri. Fu lo scandalo e la soluzione, quasi obbligata, la “fuitina”: dove? Ovviamente a Milano, la metropoli del progresso, dove si respirava aria di accoglienza e libertà.

E così fu. I genitori non vollero infierire e, comunque, fecero in modo, che Fanny, la figlia ribelle, si sistemasse dignitosamente; quindi, furono prodighi nei contributi e i due fuggitivi poterono permettersi di affittare un appartamento nel Castello Cova, del famoso architetto Coppedé, quello stravagante condominio tra liberty ed eclettismo che ancora si può ammirare tra le vie S. Vittore e Carducci.

Poi la famiglia si allargò: una figlia e altri due maschietti e sul più bello il bel playboy fugge, sedotto dalle grazie di una ballerina.

“Addio sogni di gloria, solo mia madre coronò l’ideale di far frequentare il conservatorio a mia sorella Ada, promettente cantante lirica, mentre io e mio fratello Umberto, per far quadrare il bilancio familiare, cominciammo a lavorare come garzoni e fattorini. Ricordo che una volta, trasportando un carico di chiodi in via Dante, scivolando su una rotaia, non mi accorsi di seminarne in quantità, provocando le ire dei ciclisti, allora numerosissimi, che si trovarono con la gomma a terra”.

Ma questa forzata attività fisica stimolò in Guido un’altra esigente passione, quella per lo sport, che lo portò addirittura a vincere due titoli italiani di atletica per gli 800 e 1500 metri.

“Arrivavo a casa sfinito, ma cominciai così a scoprire il vero volto della città, la Milano degli umili, dalla parlata semplice e diretta, una Milano dove, nel mezzo del lavoro più febbrile, si potevano trovare dei singolari personaggi di strada e anche nel mondo della mala e della prostituzione non mancavano esempi di generosità.
Da quell’esperienza faticosa ma fondamentale per la mia formazione, ho tratto anche spunto per le mie commedie vernacolari, come Paneroni e Barbapedana: “La prima Guèra Mondial l’era finida e cominciava la dittatura: on sac de dispiasée, ma la gent l’era istèss pusée alegra d’incoeu e savì perché? Perché eren in tanti a parlà milanes. Sì, l’èe vera, anca alora circolava el dialètt siculo-barese, ma el slogan official de Milan l’era Va de via i ciapp e no Vàffa …”.
Il Paneroni, con i suoi foglietti pieni di grafici astronomici, apostrofava la gente agli angoli delle strade col suo famoso: “La tèra l’èe piatta e l’èe ferma, o bésti!” e il Barbapedana cantava: “O tosan de Milan, Milanon, Milanin … bèi tosan, bèi faccin … e la bionda l’èe come l’onda … E la negra semper l’èe alegra! … ”

Questo incontro con il dialetto, una sorta di omaggio alla città che tanto gli dava, fu poi ripreso nella maturità con una serie di opere, tra cui la più fortunata e ancor oggi rappresentata con successo fu Risott cunt i fung.

Il vento del Nord

Milano, ieri come oggi, è stata al centro dei cambiamenti che hanno influito in modo determinante sulla storia del nostro Paese. A Milano era nato il Fascismo e a Milano scoppiò l’insurrezione che portò alla fuga di Mussolini e alla dissoluzione del regime. E da qui cominciò a soffiare quel “vento del Nord” che avrebbe voluto e dovuto influenzare la politica romana per un rinnovamento delle nostre istituzioni e della società. Il sorprendente era che, nonostante le distruzioni e i lutti, la città non smetteva di vivere: i teatri agibili continuavano a rappresentare opere e varietà, i tram funzionavano e, almeno in parte, era garantita l’erogazione dell’energia elettrica e del gas. Naturalmente, si lavorava sodo, come faceva Guido, impiegato in un’importante azienda elettrotecnica.

Ma un vero milanese non poteva essere estraneo a quella grande stagione di entusiasmi e speranze che si prospettava dopo il fascismo e l’Ammirata, per agire più liberamente, scelse la clandestinità e partecipò alla lotta di liberazione impegnandovi tutte le sue risorse di coraggio e capacità.

Prima di tutto aderì al Partito d’Azione, che considerava il più autonomo e laico, e da questa scelta scaturì l’esigenza di pubblicare un giornale clandestino, di cui divenne direttore, facendo tesoro della sua precedente esperienza giornalistica al Resto del Carlino. Si trattava di un foglio di propaganda e di lotta che si chiamò Italia Libera – Unione dei Lavoratori del Braccio e della Mente, che lanciava questo proclama: “Compagni, ridestiamoci, è l’ora della nostra rivoluzione, i compagni della bassa Italia, unitamente ai compagni russi, inglesi e americani saranno al nostro fianco per rendere l’Italia Libera come l’abbiamo sempre sognata”.

E fu anche in questo crogiolo di esperienze e idee che Ammirata s’imbatté nella figura di Antonio Gramsci e a lui, anni dopo, dedicò un’opera teatrale per mettere a fuoco, assieme al politico, l’uomo: “È indispensabile riproporre all’attenzione degli Italiani la figura di Antonio Gramsci, la sua fierezza, la sua umiltà. Somme virtù che fra gli uomini politici odierni sono raramente ravvisabili … Gramsci predicava che l’uomo deve prima istruirsi, che l’uomo deve prima essere onesto e leale e lavoratore, se vuole essere degno di esercitare in modo responsabile il suo diritto politico. La sua figura appare ancora oggi di un’attualità folgorante”.

Nel dopoguerra, sempre coltivando lo stile milanese e per sopperire alle esigenze di una famiglia con due figli, all’attività creativo-intellettuale, l’Ammirata affiancò quella commerciale e grazie anche all’incontro con Anna, poi sua moglie, “autentico talento di attrice” – come la definì Marta Abba - resuscitò un’altra sua antica vena, quella teatrale.

Numerosi e vari furono i soggetti delle sue opere, solo per citarne uno, il Pirandello, messa in scena di aspetti nascosti della vita del grande drammaturgo, che gli valse il plauso e l’amicizia della stessa Marta Abba. Poi, sempre sulla scia della sua poetica, che conciliava il soggettivo con la storia e la denuncia sociale, Guido, s’impegnò nella prevenzione e la lotta contro la tossicodipendenza, lasciando come testamento spirituale una vissuta e sofferta commedia: Attrice allo specchio. Overdose, che si aggira nei meandri dell’ambiente e dei personaggi della droga, dove vittime e carnefici si avvitano in una spirale di desolazione e di morte.

Il suo testamento spirituale e poetico fu però l’ultima raccolta di liriche, Poesie del congedo, un intenso e sofferto sguardo sulla sua vita e sulla società, alla vigilia del suo “congedo” dalla vita:

Pigra domenica

Pigra domenica
Poltrone, divani
abbrutiti da dodici programmi tivù.
Tra un sonno e un dormiveglia
rare parole:
il giallo è sul secondo
la partita sul primo;
stacca il telefono.
Siam vivi? Ne dubito
e voglio accertarmi
se tu respiri ancora,
in quel sarcofago di piume
che prepara all’eterna inedia.

Così il sindaco di Milano Carlo Tognoli si espresse nell’assegnargli l‘attestato di benemerenza del Comune di Milano: “Scrittore, giornalista e drammaturgo, ha rivolto la sua particolare attenzione ai più gravi problemi attuali di carattere sociale, impegnandosi personalmente per il recupero dei drogati e l’assistenza ai sofferenti”.