Tra la fine dell’Ottocento e inizio del secolo scorso, l’Italia è un Paese affamato e flagellato da malattie portate non da un virus arrivato da un altro continente, ma diretta conseguenza della miseria nostrana: pellagra, malaria e tubercolosi.
Nell’Italia pre-industriale i contadini sono i tre quarti della popolazione: 25 milioni di esseri umani denutriti che coltivano la terra, ne raccolgono i frutti, ma continuano a soffrire di rachitismo e scorbuto.
Quando il cibo è un lusso per ricchi, ai poveri vengono lasciate due possibilità: morire o partire.
E allora partono, con le loro scarpe rotte, le loro pance vuote e tutti i loro averi in un fagotto o una valigia di cartone.
A quei tempi davanti alla povertà la risposta non era la solidarietà ma la vergogna: non c’è letteratura che parli di quella gente che compare al massimo come citazione in un paio di racconti di Pirandello. L’unica eccezione è Edmondo de Amicis, l’unica voce che ha raccontato quelle partenze dolorose, quei viaggi della speranza così pieni di disperazione.
De Amicis che era un romanziere ma forse ancor prima un giornalista, si imbarcò affrontando l’interminabile viaggio da Genova a Buenos Aires per poterlo raccontare, il suo Sull’Oceano (1889) è l’unico romanzo italiano che parla dell’emigrazione di quei decenni.
Ancora prima di scrivere il libro aveva già dedicato ai suoi connazionali costretti ad emigrare una poesia, di cui questo è un frammento che in poche righe dice moltissimo.

Ammonticchiati là come giumenti
Sulla gelida prua morsa dai venti,
Migrano a terre inospiti e lontane;
Laceri e macilenti,
Varcano i mari per cercar del pane.

(Gli Emigranti, Edmondo de Amicis, 1882)

Nei primi 15 anni del ‘900 un fiume di gente disperata viene costretta a lasciare la propria terra, 8 milioni769mila italiani si imbarcano per cercare di sfuggire la miseria e per potere conservare la speranza di non dovere più vedere i propri figli crepargli tra le braccia.

Ma l’inizio del secolo oltre alle tragedie che flagellano da sempre i poveri del mondo, porta anche qualcosa che è nuovo e strabiliante: il cinema. E non è Hollywood - che ancora non esisteva e mai sarebbe esistita se un dittatore con i baffetti non avesse scatenato il secondo conflitto mondiale - ma l’Italia a diventare il campione di un nuovo genere il cui impatto è pari al suo nome: colossale.
Nel colossal le scenografie non sono più tele dipinte ma tridimensionali, la prospettiva e la profondità di campo sullo schermo sono maestose, ed ogni cosa è enorme: il numero delle comparse, i metri di pellicola, e soprattutto l’ondata di emozione che si frange sul pubblico come uno tsunami.
Davanti a questa imitazione della realtà così impossibilmente vera, il pubblico grida e si butta per terra per non essere travolta da cavalli al galoppo o da un toro di pezza impazzito, urla suggerimenti al protagonista, diventa attore dalla platea, urla e si sbraccia: “Di là, corri. È andato di là!!!!”.

Quando nel 1913 il regista romano Enrico Guazzoni gira Quo Vadis le riprese durano due mesi, il cast è composto da cinquemila umani e 30 leoni, le riprese riempiono 2.250 metri di pellicola, la proiezione invece dei normali 10-30 minuti dura due ore.

Nella versione nostrana del film compare un omone grande grosso e muto (il sonoro non sarebbe arrivato che nel ’27) il gigante buono del film, interpretato da un romanaccio erculeo e soprattutto ben pasciuto che manda in visibilio le folle di gracili ed affamati italiani che affollano le sale di proiezione.
Il personaggio si chiama Ursus, e l’attore Bruto, Bruto Castellani.
Il Ben Hur italiano è un successo internazionale che resta in cartellone a Broadway ogni giorno per nove mesi consecutivi, spopola a Londra dove alla prima alla Royal Albert Hall re Giorgio V in preda all’entusiasmo si dimentica di essere sia inglese che re e continua a dare amichevoli pacche sulla spalla a Castellani, chiamandolo Ursus.
La forza, la imponente stazza e la generosità e di Ursus/Bruto non si limitano ad entusiasmare il re d’Inghilterra, ma riscattano un’Italia sottoalimentata e malaticcia, che per due magnifiche ore ritorna a nutrirsi di sogni.