Un evento delle grandi occasioni è andato in scena a Venezia nei giorni scorsi: la straordinaria opera di Ludwig van Beethoven, Fidelio, ha inaugurato la stagione lirica e di balletto della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia.

Fidelio è l’opera che più di ogni altra rappresenta la libertà e la liberazione. E sul palcoscenico veneziano è stato presentato in un nuovo allestimento per la regia di Joan Anton Rechi, e sotto la direzione musicale del grande maestro coreano Myung-Whun Chung, che in maniera sublime ha diretto l’ Orchestra e il Coro del Teatro La Fenice.

Non è certo stato facile addentrarsi in quest’opera da sempre riconosciuta come mancata, quando invece e lo è stato dimostrato in palcoscenico, Fidelio risulta essere una vera e propria battaglia per la libertà dell’uomo, le sue potenzialità, la sua forza e il suo vigore, il suo essere attore.

Quest’unica opera lirica composta da Beethoven, si basa su un libretto di Joseph Sonnleithner e Georg Friedrich Treitschke tratto dalla Léonore di Jean-Nicolas Bouilly. Tre le versioni note: la prima fu composta nel 1804-1805 in tre atti, e andò in scena nel 1805 nella Vienna occupata dalle truppe francesi. La terza e definitiva versione, in due atti, risale invece al 1814, e debuttò al Kärntnertortheater: sarà questa l’edizione effettivamente eseguita, in abbinamento con l’ouverture Leonore n. 3 in do maggiore op. 72b, creata per la seconda versione della partitura.

Ma veniamo direttamente alla rappresentazione veneziana il Fidelio si è distinto per intensità, forza e caparbietà e splendide scenografie. Il testo è steso sulla falsariga di un lavoro messo in musica da Pierre Gaveaux nel 1798: si tratta di Léonore, ou L'amour coniugal, del drammaturgo francese Jean-Nicolas Bouilly, che nelle Mémoires avrebbe in seguito asserito trattarsi di un episodio veramente accaduto, durante gli anni del Terrore. La pièce di Bouilly apparteneva a pieno titolo al genere francese postrivoluzionario dell'opéra à sauvetage, la cui trama-tipo prevedeva il salvataggio in extremis di una vittima innocente e virtuosa, predestinata a morte da un tiranno esecrabile e sadico. E con il suo Fidelio, Beethoven – che preferiva il femminile Leonore ma accettò il titolo maschile per evitare omonimie - esordì il 20 novembre al Theater an der Wien, davanti a un pubblico di ufficiali napoleonici, che lo fischiarono; con nuove modifiche fu riproposto sullo stesso palcoscenico nel marzo 1806 col titolo Leonore, riscuotendo un timido consenso. La partitura rimase nel cassetto fino alla primavera del 1814, quando fu sottoposta all'ultima revisione, con il poeta G.F. Treitschke. Ma nello spettacolo veneziano numerosi sono i punti di novità che emergono con forza e carattere. Ed è lo stesso direttore Myung-Whun Chung a connotarli in primo luogo attraverso una spinta musicale verso l’amore, che vive in Beethoven come sul palcoscenico quale uomo più felice di un mondo. E in secondo luogo, è la battaglia per la libertà, ad emergere in quest’opera quale atto eroico e dinamico che muove tra la bacchetta e il pianoforte, la magia della direzione e l’espressione dell’azione dentro una scrittura scenico-musicale che guarda a quel senso di fraternità che in Fidelio trova concretezza e identità.

E se la composizione di Fidelio è ambito e motivo su cui Beethoven si è cimentato per moltissimo tempo; in un lavoro duro e profondo e duro, è anche vero e vivo che la magia di Myung-Whun assume una forma geniale, un’opera totale quale esemplificazione di forza e coraggio, ma anche della volontà a ricercare oltre la consegna musicale, il quadro drammatico del testo, accompagnato da una scenografia che non manca di far riflettere, e che spinge il pubblico a chiedersi cosa possa contenere una “testa mitologica”, o quel cranio dal cui fuoriescono forme, uomini e donne, come idee, spartiti, lettere o voci.

E non a caso, il regista Joan Anton Rechi parte dall’idea concreta, ma comunque aperta anche ad altre letture e interpretazioni. Sì, perché l’opera si svolge a Siviglia, e vi è un fatto storico che “tutti noi spagnoli” - ricorda Rechi - abbiamo in mente e che fa parte della nostra cultura, la Valle dei Caduti (Valle de los Caídos), un monastero che si trova vicino all’Escorial, e che venne costruito subito dopo la fine della Guerra Civile, negli anni Quaranta. Era per coloro che avevano perso la guerra, cioè i repubblicani, prigionieri politici che lavoravano alla costruzione di questo monastero, riducendo con questo lavoro la pena da scontare. Non erano criminali, semplicemente avevano lottato dalla parte degli sconfitti. Si trattava di una vera e propria prigione di stato all’aria aperta, situata in un luogo molto inospitale. Sorge così in scena l’idea di un carcere all’aria aperta - presente nel primo atto e in contrapposizione al secondo atto - dove invece risulta oscuro ed ambientato sottoterra. Dal cielo all’inferno, dalla speranza all’oscurità, senza più alcuna possibilità, senza vedere il ritorno, il luogo di una morte. Tutti atti reali e concreti ben rappresentati e ben musicati, che vivono di un’intensità e di una drammaturgia straordinaria. Ed ecco allora lo spettacolo fondersi in una statua gigante, in una sorta di leader quasi a caratterizzare la figura mitologica di Fidelio. E la stessa opera di Beethoven segue così un impianto mitologico, richiama il mito di Orfeo che finisce agli inferi per riscattare Euridice. Mentre Leonora ricorda il mitico cantore, perché anche lei scende all’inferno per portare in salvo il proprio amato.

Intenso e drammatico con un cast d’eccezione composto nei ruoli principali da due voci principali Tamara Wilson in Leonore e Ian Koziara nel prigioniero Florestan. Ma assai interessanti per l’intensità lirica è risultata Ekaterina Bakanova (Marzelline, figlia del carceriere), per un forte impatto Oliver Zwarg nel ruolo di Pizarro. Così come la regia di Joan Anto Rechi e le scene di Gabriel Insignares, hanno funzionato perfettamente nel carattere di un racconto strutturato anche sulla ripresa mitologica; sulla via di fuga della prigione e la sua profondità come “prospettiva” di una vita, tra seducenti cerchi concentrici, in cui non vi è speranza, storia e possibilità. Uno spettacolo davvero coinvolgente che ha riscosso applausi dall’ intera Fenice, che apre al mondo la sua nuova stagione con questa prima grande soddisfazione.