“Welcome to my world”. Una voce suadente introduce gli spettatori ancora avvolti nel buio al nuovo spettacolo di Enzo Cosimi, presentato il 23 gennaio presso il Teatro dell'Arte di Milano.

Il celebre regista e coreografo italiano affermatosi su platee di consensi fin dai suoi esordi negli anni Ottanta, torna a Milano dopo soli pochi mesi dal suo spettacolo Roma, inscenato presso gli spazi della scuola Paolo Grassi di Milano con la collaborazione degli allievi del corso di Teatro Danza. L'edificio, in occasione dell'opera settembrina, è stato snaturato al fine di creare una fitta trama di ambienti narrativi, dai toni pop – per non dire trash – ai quali l'artista sembra incline. La performance di teatro danza si articola in un itinerario ben preciso che lo spettatore è invitato/costretto a percorrere per poter godere pienamente della pregnanza visionaria e lacerante come un colpo di frusta: ogni luogo sembra raffigurare o trasfigurare un immaginario mentale e ci si ritrova immersi in un postmodernismo dilagante, esasperato, all'interno del quale però ogni elemento è ben calibrato e studiato con meticolosa precisione. Se nell'intreccio di tableau vivant di Roma Cosimi immortala scorci visionari di Città Eterna, in questa ultima opera il regista e coreografo si confronta con il tema dell'Apocalisse, con la condizione e le reazioni dell'uomo contemporaneo all'alba della sorte.

“Quando avverrà la fine del mondo? Che volto avrà l’Apocalisse? Si teme l’anno mille come portatore di disgrazie più che di rivoluzioni positive. La tecnologia contemporanea amplifica, gonfia la paura, fa diventare verità semplici ipotesi...”

In Welcome to my world la modulazione muscolare e corporea dei performer incarna letteralmente la concezione del dominio e dell'arbitrio umano. La solidità e la definizione del movimento, mai liberatorio ma sempre spastico o psicotico, si fonde con i boati e i suoni viscerali provenienti dalla Terra e dal Cielo. Le vibrazioni si dipanano su corpi nudi, con petti e seni spogli e quel latte sunto dalle bottiglie di vetro quasi fossero mammelle riecheggia animalità, primitivismo, forse eco di un'umanità dissolta nella reiterazione di una gestualità spuria, in-significante, robotica. I quattro danzatori articolano più volte riti quasi orgiastici, durante i quali i corpi si intrecciano, si dominano l'un l'altro con fermezza, si leccano, bilanciano i loro movimenti perfetti come in un meccanismo Rube Goldberg. Le luci sono modulate in un sinestetico equilibrio acustico-cromatico che irrora la scena e i corpi di energia vibrante e di emotività.

La scena è colma, esausta: corpi, suoni e luci fremono all'unisono con ritmo ossessivo-psicotico, minacciato da fragori e smaniosi cinguettii, rasserenato da pochi secondi di quiete e buio durante i quali i corpi si riassestano. Una compiuta e solida messa in scena totale articola il suo gemino: l'incertezza dell'incombente apocalittica ventura, nella consapevolezza di una caducità eterna, ormai fatua.