Argomento comune al film vincitore dell’Oscar come migliore film straniero, La grande bellezza di Sorrentino, e alle Operette morali di Giacomo Leopardi, messe in scena dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino per la regia di Mario Martone, è la riflessione sull’oggi. Grande contributo può dare, infatti, alla comprensione del nostro tempo, e alle emozioni che ci navigano dentro a volte senza quello che potremmo definire senso, lo può dare il teatro, seguito dal cinema; contributo di comprensione a processi emotivi e mentali che soltanto l’arte può sottolineare, sviscerare, etichettare con termini semantici, ben prima che ce ne possiamo davvero rendere conto.

Così i toni apparentemente decadenti, sottolineati dalla bella fotografia del film di Sorrentino e dall’espressione fissamente sorridente di Toni Servillo, vengono resi ancor più spessi dalla rivisitazione di un’opera di Leopardi che entra nella mente malgrado il non facile copione. Premio UBU per il Teatro a Martone per la miglior regia, premio La Ginestra per la regia, sempre a Martone, che ha ottenuto con Operette morali anche il Premio dello Spettatore 2012 Teatri di Vita di Bologna, la commedia portata al Sociale di Brescia ha convinto.

Si tratta di una raccolta di ventiquattro componimenti in prosa, dialoghi e novelle, composti dal Leopardi tra il 1824 e il 1832. Le Operette affrontano i temi della ricerca della felicità, della natura matrigna, della vita che non è altro che dolore, della morte che viene interrogata da uno scienziato la notte che i cadaveri, che aveva presso di sé per uno studio sull’anima, hanno preso a parlargli. Su tutto aleggia la sensazione che, se la vita è un mistero un po’ caotico, basato sull’infelicità e sulla sofferenza, soltanto la ragione può essere la vera via d’uscita.

Secondo Leopardi, l’uomo si muove in un mondo posseduto da una Natura cieca e matrigna, pertanto da essa non può ottenere nulla. Il progresso scientifico viene rappresentato da una caricatura di scienziato che si preoccupa di problemi ininfluenti per la situazione del divenire vitale: quando si muore, si sente dolore? Già il fatto che si presenti in scena in camicia da notte some si usava un tempo, con una bugia che sostiene una candela quasi al moccolo e che abbia una paura folle dell’insondabile, del misterioso e del nuovo che si presenta ai suoi occhi, lui che dovrebbe proprio da tutto questo trarre motivazione di indagine, depone contro una casta di persone che il Poeta non dimostrava di tenere in alta considerazione.

Martone è stato impegnato in ambito cinematografico, pertanto ha trovato molto interessante questo lavoro, inusuale per il teatro, per la sua alta teatralità, ma soprattutto per la pertinenza con i tempi attuali. I rimandi sono molti, infatti, per tutto il testo. Scrive Ippolita di Majo, drammaturga dello spettacolo che “A monte sta l’urgenza, artistica e civile, di riandare alle origini della scrittura teatrale nazionale per interrogarsi sui suoi potenziali e i suoi limiti: da Alfieri a Manzoni, appunto a Leopardi. Le Operette morali offrono spunti di straordinaria efficacia e forza espressiva. L’idea di scrivere dei “dialoghetti satirici alla maniera di Luciano” nasce nel giovane Leopardi dal problema insoluto con la "drammatica", ovvero con la scrittura teatrale tradizionalmente intesa: “io che non mi posso adattare alle cerimonie non mi adatto anche a quell’uso; e scrivo in lingua moderna”, fa dire infatti con orgoglio a Eleandro nel Dialogo di Timandro e di Eleandro.

Sosteneva il Poeta di volere dare alla commedia quell’enfasi, quei dialoghi che erano stati propri della tragedia, e riuscire a portare in scena i vizi dei potenti, l’assurdità della politica, il decadimento morale, la sfiducia nella filosofia del suo tempo, insomma tutti gli aspetti negativi del suo tempo. Qualcosa che lo accomuna alla ricerca di oggi, ai nostri tempi, alle nostre urgenze. Leopardi, scrivendo in forma breve, può affrontare vari argomenti, vari tratteggi della personalità umana e in questo modo anche in scena ci troviamo con personaggi più o meno azzeccati della varia umanità. Ci possiamo anche riconoscere, o riconoscere qualcosa di contemporaneo in un lavoro di due secoli fa. I dialoghi e le riflessioni del tempo leopardiano fanno sì che a tratti il senso del testo diventi difficile da ascoltare, ma è proprio questo che permette alla parola di emergere: i termini vanno ricercati in noi stessi spettatori, con lo spessore che la parola ha e deve avere, anche se sembra oggi smozzicata e frammentata.

Martone riprende così la sua indagine de L’opera segreta che vedeva l’ultima parte dedicata al soggiorno napoletano di Leopardi. Ne esce, così, un confronto tra i valori di un tempo e quelli di oggi, in rimandi continui che stimolano nello spettatore riflessioni a vari livelli. Se seguiamo il ragionamento leopardiano secondo il quale le conquiste dell’umanità sono pure illusioni del momento, di un progresso senza costrutto, che rivedremo in scena prossimamente ancora a lungo con il lavoro teatrale (la tournée prosegue a Fermo, Salerno, Piacenza, Modena, Torino), così come è già stato presentato a New York, arriviamo appresso alla sceneggiatura de La grande bellezza.

Il film ci propone un personaggio che cela se stesso dietro un sorriso di circostanza, una circostanza che dura da decenni. Apparentemente decadente, in realtà non fa altro che cercare una via d’uscita a un mondo che ritiene di conoscere abbastanza per averne abbastanza, e rimanere indisturbato dal caos rassicurante della capitale italiana, a passeggiare lungo un corso d’acqua. Che può essere il Tevere o il flusso dei propri pensieri, senza grande importanza. Le atmosfere chiaramente felliniane ci portano in una sorta di sogno collettivo, in cui il mito del successo, del progresso, si sfracella contro l’altezza di una caporedattrice che per l’appunto è nana, a indicare che la grandezza non è fatta da altisonanti e appariscenti detentori della verità che ritengono rivelata solo a loro.

Se il film vuole delineare una realtà, vuole anche essere un archetipo; ogni scena è un termine di paragone, è un cliché per se stessa, non per ciò che si vede. Come Leopardi si mette in scena per indicare una strada, così la strada che percorre Servillo nelle sue passeggiate rassicuranti, porta al ritorno della parola. Il protagonista vuole riprendere a scrivere e comincia ad osservare ciò che lo circonda non più da protagonista, ma da spettatore. Vuole trovare le parole per dire tutto quello che vede e, soprattutto, che sente dentro. Non gli bastano le feste e i festeggiamenti, i suoni e i rumori. Per tutto, ora che ha avuto tutto per una vita intera, vuole trovare un senso. È come se avesse cercato per tutta la vita: ora deve smettere di cercare, fermarsi e ritrovare il suo senso. È arrivato a Roma perché scrittore. Poi (forse) si è perso. Soltanto una nuova trama gli darà la spiegazione e la risposta. E soltanto dentro di sé potrà trovare quella differenza dagli altri, quello spessore, che sarà la salvezza di se stesso. E di un intero Paese. L’Italia.

La bellezza attorno, data dalle pietre, dai tramonti, dai profili certi di vite passate che sono state, non è fine a se stessa, e non è nemmeno la conclusione del film. La bellezza viene vista, finalmente, da qualcuno. Perché il tempo, l’età, la crisi, la demoralizzazione, la noia, quel che si voglia, hanno portato a fermarsi. E a Roma ci si ferma sempre in qualcosa di bello. I due testi ci danno la stessa soluzione a un problema che sentiamo impellente. Risolvere il nostro presente con un senso che mai come ora si può, e forse si deve, trovare proprio nella cultura e nell’arte. E anche, o soprattutto, nella verità: quella che sarebbe meglio non dire, soprattutto alle feste con gli amici, ma che quando viene fuori non lascia spazi a mezze misure e determina la linea da seguire per uscire dal proprio, comune, labirinto.