Il primo ricordo che ho della musica di Enzo Jannacci è quello di una cassetta infilata nell’autoradio di mio padre. Tanti chilometri percorsi con quelle canzoni a farci da colonna sonora, tre decenni abbondanti prima che l’avvento dei tablet trasformasse i viaggi dei bambini in un’alienante esperienza individuale. Alla fine il babbo toglieva quel nastro dopo mille volte che mio fratello e io gli chiedevamo di riascoltare la nostra preferita, che era naturalmente Vengo anch’io, no tu no, con tutti noi a cantare in coro quel ritornello-sberleffo. Una volta dopo l’altra, dopo l’altra, dopo l’altra, dopo l’altra, dopo l’altra, dopo l’altra. Insomma, capite le ragioni di mio padre?

Qualche anno dopo, non ricordo bene quando né in quale occasione, mi capitò di ascoltare Vincenzina e la fabbrica. Ero un adolescente, abbastanza grande per accorgermi che Jannacci non era solo quello che ci faceva ridere sul sedile posteriore, e che poteva avere anche un’altra faccia, un altro sguardo. Mi sembrò una delle canzoni più belle che avessi mai sentito. Forse non capii quel giorno stesso ciò che avrei pensato in seguito, cioè che solo un uomo capace di un’ironia come la sua, libera da intenti denigratori o da illusione di superiorità, e anzi carica di empatia e com-passione, era in grado di raggiungere il vertice opposto, la commozione pura, senza precipitare in un melodramma ridicolo.

Negli anni Ottanta mi capitò di “lavorare”, come altri fortunati della mia generazione, in una radio privata. Sugli scaffali di ferro attorno al mixer c’erano alcuni dischi di Jannacci, che ascoltavo e trasmettevo, e che ancora rimpiango di non aver fregato quando quella radio chiuse, come tante altre, vendendo le frequenze a un network nazionale. Il rimpianto è dovuto anche a una condizione oggettiva in cui qualsiasi shopper musicale compulsivo come me si è trovato negli ultimi decenni: una delle peggiori nefandezze che l’industria discografica italiana abbia combinato, è l’aver trascurato il catalogo di Jannacci. Non è un modo di dire: ho cercato molte volte nei negozi, in fondo all’ultimo dei raccoglitori, e in seguito sui siti più o meno popolari. Ma il risultato non cambiava: si trovavano sempre le stesse compilation, più o meno valide, e qualche cd registrato dal vivo, ma praticamente nessuna ristampa dei suoi album originali.

Enzo Jannacci è morto da poco più di un anno, e finalmente chi ha la curiosità o il desiderio di recuperare alcuni dei suoi dischi più belli può farlo grazie allo splendido lavoro dell’etichetta Ala Bianca, che ha raccolto in un cofanetto (Remastering 1975-1979) quattro lavori, rimasterizzandoli e corredandoli di un bel libretto. Ho saputo della sua esistenza subito dopo la morte dell’autore, e l’ho comprato immediatamente. Ascoltando quelle quarantatré canzoni (all’epoca il valore dei dischi non si misurava con la durata in minuti), ho pensato che tenere nascoste meraviglie del genere è stato vergognoso, e in fondo anche inspiegabile. I dischi sono Quelli che…, O vivere o ridere, Secondo te… che gusto c’è? e Foto ricordo. In ognuno trovate capolavori indimenticabili. Si va dal registro satirico di Quelli che… al divertimento amaro di Saxophone, passando per la poesia di Mario, per lo struggimento di Vincenzina e la fabbrica, e si arriva al dolore rabbioso e impotente di Natalia o alla malinconia corrosiva di L’arcobaleno. Non è da tutti padroneggiare il cabaret de Il ficus o dell’introduzione di El me indriss e poco dopo scolpire passaggi come “Natalia, che hai capito che all’ospedale di Milano/sei la numero 38 in lista d’attesa/Natalia con la valvola nel cuore messa dalla parte sbagliata (…) Natalia che non puoi sapere cos’è bradicardia/cioè che tutto sta andando a puttane (…) Natalia che domani vai via, grazie di tutto e così sia”.

Un ulteriore regalo ce lo ha fatto Paolo Jannacci, il figlio di Enzo, che ha lavorato insieme a lui fino agli ultimi giorni, per fargli registrare l’album uscito nel 2013, che si intitola L’Artista (Ala Bianca). Jannacci qui compie un’operazione che aveva già fatto in passato (con Nuove registrazioni 1980 per esempio), cioè ripesca una serie di brani, per lo più poco conosciuti e contenuti in dischi mai ristampati in digitale, e li incide di nuovo. C’è un solo inedito Desolato, e per i miei gusti è anche il pezzo di cui avrei potuto fare a meno per via della collaborazione con il rapper J-Ax, ma il risultato complessivo è ancora una volta un capolavoro di sentimenti, di interpretazione, di scrittura, e in questo particolare caso (come in molti altri, visto che Jannacci sceglieva sempre musicisti di prim’ordine) anche di arrangiamento ed esecuzione. Il titolo è quello del brano d’apertura, che disegna il ritratto di un artista forse colpevole di farsi cliché: “Non ha capito ancora l’artista/che non si pensa soltanto a sé/non si ricorda della modista/va sempre in giro che sembra un re”. Ci sono momenti di vera magia, come in Cosa importa: “Nella strada soltanto luce di filovia/E la roba è un gioco/Ci ridevi sopra/non mi ciulan mica/e sei volato via”. Tra molti pezzi da ricordare, La sera che partì mio padre si carica di emozioni particolari, trovando posto in un album realizzato a quattro mani da un figlio e un padre, quando entrambi già sapevano di doversi separare presto.

La sera che partì mio padre
non c’eran canzoni da ascoltare
perché la radio continuò a parlare
e mio padre andava per non tornar più

(…)
La sera che me ne andrò anch’io
Io spero solo che sia Natale
Perché a Natale stanno tutti in casa
a mangiare e a bere
ascoltarsi parlare