Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario
Celine

Odisseo, se mai fù esistente
Odissea

Cercavo la grande bellezza, ma non l’ho trovata
Jep Gambardella

Non avevo mai letto una sceneggiatura. Per fortuna mi hanno regalato la sceneggiatura di Paolo Sorrentino e di Umberto Contarello (La Grande Bellezza, Skira) e ho potuto quindi ragionare meglio su un film che non mi feci sfuggire fin dai primi sporadici trailer e mi gustai, da solo, nel multisala della mia città di provincia. Andai a vederlo per tre motivi: Tony Servillo, il titolo ambizioso ed epico e lo stesso trailer con la scena della festa scatenata su una terrazza del centro di Roma. Quello che certi ambienti non hanno capito di questo gioiello d’arte è il grosso sbaglio di una lettura sociologico-politica del film come fosse una celebrazione estetizzante di un’Italia decadente. Inutile interrogare gli indovinatissimi attori, tantomeno gli ottimi sceneggiatori.

Quando mai un artista sa raccontare la sua arte al di fuori dell’opera? E' l’opera che ci parla se la si vuole ascoltare. I titoli giganti su Roma ad aprire e chiudere il racconto in medias res nella loro eclatante fisicità avrebbero dovuto mettere in avvertenza sull’unico tema dell’opera: la visione. Quell’"occhio" che vede in modo inclusivo e distaccato, inclusivo in quanto distaccato, e in American Beauty coglie la “grande bellezza” in un sacchetto di plastica che svolazza in un piccolo vortice su di un marciapiede, qui quest’occhio alato e fermo, come quelli vergini di Pinocchio, è Jep Gambardella. La distinzione è semplice: in American Beauty il distacco dalla praxis da parte del protagonista, conquistato tramite la perdita del lavoro, gli permette di cogliere una “grande bellezza” sparsa ovunque, eterica, sovrabbondante, autosufficiente, mentre nella nostra opera scopriremo che è una disillusione sentimentale giovanile che permette a Jep di diventare Jep seppur lo inquieti in un’incessante “curiosità meditativa” o “meditatività curiosa”.

In entrambe le vie il distacco facilita l’accoglimento di una visione ampia, chiara, asciutta. Il fuoco ha bisogno di materie refrattarie per ritornare. I “luoghi” di Jep sono le passeggiate notturne dove la musa del silenzio lo accompagna in un pensare puro, senza pensati. Quello che Calasso chiarisce sul logos della visione nella sua analisi de La finestra sul cortile di Hitchcock (La follia che viene dalle ninfe, Adelphi) lo possiamo predicare della telecamera mentale che è Jep. Quest’occhio assiste a molte cose, fra cui quello che possiamo chiamare: la sconfitta della tecnica. Ve ne sono molti esempi nel racconto: Romano, lo scrittore-attore artefatto, lascia Roma, la bambina prodigio piange nella costrizione della performance artistica, le cure non salvano Ramona.

Chi vede in Jep l’archetipo di una disillusione fine a se stessa non ha colto l’essenza dell’Odissea. Jep come Odisseo è l’eroe la cui avventura è attraversare eroicamente le terre del disincanto. Il tema protagonista nell’Odissea non è l’incanto ma l’oblìo e la disillusione. Ciò che incanta nel racconto è ingannevole, pericoloso, deludente. Odisseo stesso continua a cadere, a soffrire, e continua ad ingannare. Per quattro volte finge identità fasulle, non a caso identità “cretesi”, in quanto “tutti i cretesi mentono”, si diceva allora. Fantasma è lui stesso, come Penelope ed Elena, Circe e Calipso. Quello che resta e avanza è l’Occhio sulla vela e sulla prua della nave. L’occhio egizio e cretese, sirenico, etrusco. Un occhio che resta aperto. Postulato della messa in scena dello spettacolo del mondo. Il tema dello spreco quale esigenza vitale, necessità, bellezza. L’occhio si libera dall’eccesso di umido per volare asciutto, come i fenicotteri che appaiono all’improvviso.

La “santa” riporta Jep alle sua radici, alla prima disillusione che è il primo amore, alla sua “grande bellezza” colta e mai passata. Per essere raccontata la vita deve farsi teatro, spettacolo. Solo la festa può includerla ampiamente in una necessaria parvenza di legittimazione omnicomprensiva. Il tema della festa è tema ontologico, non sociologico. Solo la festa può oggi trasmettere l’idea narrativa di una redenzione. E’ la ripetizione amata da Kirkegaard. Jep non è esteta decadente. Lo si coglie nella sua laconica asciuttezza quando intervista Talia Concept e lo si coglie quando distrugge con altrettanto asciutta eleganza le sicurezze moralistiche di Stefania. Chi non accetta la recita non può godere dello spettacolo del mondo. Un Jep socratico, parmenideo. Mira all’essenza semantica, tende al rigore del linguaggio. Il Nome resta insieme all’Occhio.

Nell’elegante austerità della sua fedeltà alla recita Jep permette alla visione di focalizzarsi quale Logos. Jep sfugge ai nomi per la sua fedeltà al Nome. Non è Pittigrilli, non è Landolfi, né Malaparte, anche se assomiglia a questi. L’unica vera somiglianza è ancora quella con Odisseo. Jep pratica la cledonomanzia, come Odisseo in Itaca. Passeggiando assorto coglie con venerazione i discorsi disconessi del “pazzo” come i gesti e le parole spezzate di un circo sociale disperso e ritornante. La tela è Roma con le sue lunghe notti e le sue albe immense e rituali come bagni lustrali, belle e finte come un trucco, come il trucco di Arturo di far sparire la giraffa. Il camminare diventa invece cleidomanzia nella nobiltà del “possedere le chiavi” che connettono in un unico luogo le meraviglie nascoste dei palazzi aristocratici romani.

Questa fa l’"occhio": connettere in unità, vedere il percorso, non compierlo. Non c’è nostalgia in quanto non si accenna ad alcuna alternativa. Tutto è qui e non “altrove”. La questione è l’incontro e il racconto. La musica è quella delle feste come quella sacra e colta delle scene e dei passaggi. Convivono. Si alternano. Senza conflitti. Da scene di semplicità che appaiono come visioni l’occhio astrae in facilità “la grande bellezza”. Nella bambina che si perde e guarda la statua, nel cortile con i bambini e le suore, i fenicotteri, ecc. Quello che appare interstizio, parentesi, riempitivo, è il respiro vitale della visione. Il resto è commento, rumore, fuga, rito di sopravvivenza, senza i quali però non si coglierebbero quelle incursioni di luce. Su queste scene sapientemente non c’è parola né chiosa.

Una delle grandezze di questo film è nel “non detto”, nel non discorrere di ciò di cui si parla, nel non recitare sui suoi fondamenti. Un nobile pudore vela la tensione e la questione portante del racconto, rendendo così tutto credibile ed attraente. Quelle scene che sono parse “felliniane” solo in quanto apparentemente irrelate da un contesto pratico o discorsivo sono i momenti in cui l’Occhio, cioè Jep, coglie “la grande bellezza”. Non sono “visioni” in quanto la “visione” è il raccontare nella sua globularità. Sono attimi di rispecchiamento, rari momenti di navigazione senza nebbia. La visione si sdoppia verso la fine, proprio perché è una. La “santa” ascende in ginocchio la Scala Santa di San Giovanni e Jep ascende la radice della sua disillusione nel ricordo del primo unico amore. Una scala e un faro.