La storia tra te e la musica, come è nata, come è cresciuta e come è diventata?

Un po’ casualmente. La curiosità per la musica me l’ha trasmessa mio fratello. È lui che mi ha fatto conoscere tanti generi musicali e musicisti differenti, dandomi la possibilità di ascoltare e avvicinarmi a più forme di espressione musicale, dalla musica classica al rock. Essendo una persona molto curiosa, chiesi ai miei genitori di regalarmi una chitarra e, a distanza di tre anni dall’acquisto, iniziai a provare a rifare qualche brano: da allora non ho più smesso. Dopo alcuni anni da autodidatta, capii che questo era ciò che mi piaceva fare, e decisi di approfondire gli studi. Iniziai così a frequentare una scuola di musica a Roma e da lì in poi altri luoghi, città e strutture. Oggi la musica è un fabbisogno quotidiano, parte di me (se non me stesso): Ossigeno. Spero che possa diventare tanto altro in futuro.

Cosa vuol dire studiare seriamente musica con l’obiettivo di diventare un professionista?

Vuol dire sacrificio. Lo studio della musica richiede molto tempo. E’ una lingua che purtroppo non è insegnata da quando siamo bambini, se non per scelta personale o familiare. Io personalmente ho dedicato molte ore della mia giornata a studiarla teoricamente e poi in pratica. Non bisogna mai accontentarsi del livello raggiunto, ma cercare sempre nuovi stimoli per mettersi in discussione e ricercarsi nella musica stessa. Il concetto di professionista è chiaramente a posteriori. Lo diventi se inizi a lavorare e guadagnare con essa. Quando si decide di donare la propria vita alla musica, l’evoluzione di un pensiero (quindi lo studio) e di una conoscenza, sono gli obiettivi principali.

Come è nato il tuo primo album Metropolitan Prints?

Perché ne sentivo il bisogno. Principalmente quello di chiudere con il passato. In genere mi sono accorto che scrivo musica (che poi diventa disco) quando sento il bisogno di lasciare una traccia di ciò che sono stato. Da lì in poi invece inizio la ricerca di un altro me musicale. Parliamo del 2009. Quando mi capita di riascoltarlo oggi sento come sia cambiata la mia idea di musica e come sta ancora evolvendosi.

2010 e 2011 sono stati anni fortunati per te, in cui hai vinto molti premi, confermi?

È stato un periodo molto importante. Ho vinto premi tra i quali il Jimmy Woode Award come miglior chitarrista e il terzo posto con il mio quartetto. È stato anche l’anno in cui ho messo piede per la prima volta a New York. L’anno d’inizio scrittura del mio ultimo lavoro discografico Aram. Un anno molto importante per la mia carriera musicale.

Nel 2012 è uscito il tuo secondo album dal titolo Aram, in cosa si differenzia dal primo?

In tantissime cose. In primis nell’organico. Il primo è un quintetto: chitarra, tromba, sax, contrabbasso e batteria. Aram invece è un quartetto: chitarra, piano, contrabbasso e batteria. Questa diversità di ensemble mi ha portato chiaramente a pensare a due sound completamente differenti. Metropolitan Prints è ricco di parti arrangiate per fiati e chitarra. Volevo ricreare una sorta di sezione fiati a sostegno della chitarra. Inoltre attraversa varie forme di musica dal jazz, al funk al trip hop. Aram invece è un disco molto più jazz, affine all’idea americana del modern jazz attuale. Ciò che invece li accomuna è la scelta di registrare e pubblicare principalmente composizioni originali. Solo in Aram è presente una rilettura di Naima.

Hai suonato con molti artisti, puoi farci qualche nome e raccontarci qualche aneddoto?

Ho avuto la fortuna di affiancare dal vivo musicisti di fama internazionale e nazionale. Dai più grandi fino alle nuove rivelazioni del jazz nostrano, da Antonello Salis, a Luca Aquino. Ci terrei però a citarne uno su tutti che mi ha dato molto sia musicalmente sia umanamente: Flavio Boltro. Con lui sto ancora avendo la possibilità di suonare e stiamo studiando anche un progetto discografico insieme. Un aneddoto carino con Flavio riguarda la nostra conoscenza. Partecipavo a un concorso di giovani promesse del jazz europeo e alla fine dell’esibizione finale dopo la premiazione (concorso che non vinsi) si avvicinò, e senza conoscermi mi abbracciò e mi disse che l’avevo emozionato e che gli sarebbe piaciuto suonare con me. Da qual momento in poi iniziò la nostra collaborazione.

Che tipo di pubblico ti segue?

Eterogeneo. Sia per fascia di età che di tipologia di consumatore. La chitarra è uno strumento noto principalmente nel rock, anch’io ho un passato da “rokkettaro” che non rinnego e che cerco sempre di far conciliare con il mio modo attuale di pensare e fare musica. Questo fa sì che anche i più giovani e diffidenti al mondo del jazz si avvicinino con molta facilità alla mia musica.

Un commento di un tuo fan?

Di commenti ne ho ricevuti tanti. Uno su tutti in particolare ve lo voglio raccontare. Avevo appena terminato un concerto in Sicilia al Caltagirone Jazz Club e mentre lasciavo il palco mi ferma una signora e mi dice: “Mi avete emozionato. Ho pianto!” Incrocio i suoi occhi e vedo effettivamente le pupille lucide e rosse. Credetemi è stato un momento emozionante, sapere che la tua musica può veramente donare emozioni forti come il pianto, ti fa pensare.

Sei stato da poco in tour in Sardegna, che terra è dal punto di vista musicale e che tipo di riscontro hai avuto?

È stata la prima volta in Sardegna sia come musicista che come turista. Il tour è andato benissimo. Ho suonato in tre città meravigliose e ho tenuto una masterclass. L’attenzione verso il jazz mi è sembrata alta. È una regione che è piena, in estate soprattutto, di festival jazz, l’accoglienza del pubblico è stata favolosa. Mi sono sentito subito a casa. Il livello musicale è alto, oltre ai più famosi come Fresu, Salis e Ferra, c’è tutto un fermento artistico molto vivo. Spero di tornarci presto, è ancora tutta da scoprire come terra.

Progetti per il futuro a breve e lungo termine?

Ora sono in fase di produzione del mio nuovo lavoro discografico. Spero entro la fine dell’anno di riuscire a registrarlo. Inoltre ho in cantiere un progetto per chitarra solo con il quale girerò molti club dell’Europa. Sto anche collaborando a un altro progetto con dei musicisti favolosi con il quale sarò in tour quest’estate. Il progetto si chiama Adria Prjoect, e anche per questo sono in fase di produzione. Insomma una fase piena di nuove creazioni con le quali girerò per tutto il 2015.

Il jazz è un mondo tutto da scoprire, cosa rappresenta per te?

Il jazz è una sorta di filosofia di vita. È dedizione, ricerca, spiritualità, evoluzione. La crescita interiore da quando ho conosciuto questo mondo è stata continua. Con il jazz ho avuto la possibilità di accrescere anche le mie capacità di analisi di ogni cosa. Ne sono stato totalmente rapito.

Dicono di te “dotato di ottima tecnica e capace di esprimere un linguaggio jazzistico fresco e seducente”, dunque tecnica e originalità insieme: come si crea questa magia?

Innanzitutto ringrazio chi ha scritto ciò di me. Credo che la tecnica serva in genere ad abbattere i limiti espressivi che lo strumento in genere dà. Il linguaggio inizialmente si studia ma poi deve anche essere plasmato a nostra immagine e somiglianza. La cosa più importante è riuscire a trovare un equilibrio tra essi. Nulla deve prevalere sull’altro. Tecnica, linguaggio, originalità e aggiungerei anche caso, devono, nel momento in cui si fa musica, trovare una strada comune (anche parallela) e camminare a pari passo. Ed è in questo momento che personalmente incrocio il mio pensiero musicale e tutto diventa un insieme.