Il personaggio di cui ci occupiamo oggi appartiene al mondo della musica classica. Si tratta di Leone Magiera: pianista, direttore d'orchestra, maestro di canto lirico, un musicista che ha accompagnato sia in concerto sia nella loro formazione i cantanti più importanti della scena internazionale, come il baritono Ruggero Raimondi, la giovane soprano Carmela Remigio, il soprano Mirella Freni – che è stata anche la sua prima moglie –, e, più famoso di tutti, il tenore Luciano Pavarotti.

Grazie ai suoi molteplici talenti musicali, Magiera è stato chiamato a interpretare almeno una cinquantina di opere tra le più famose al mondo. Oltre a costruire la sua carriera come pianista solista è stato collaboratore di maestri come von Karajan, Giulini, Abbado, Solti, Kleiber. La sua relazione con il grande direttore d'orchestra Herbert von Karajan è stata di notevole intensità: il Maestro lo reputava, infatti, il miglior conoscitore del repertorio operistico italiano, francese e mozartiano. Per parecchi anni ha preteso, dunque, che, prima del debutto sul palcoscenico del Festival di Salisburgo, anche gli artisti di fama internazionale e di grande talento studiassero le opere con il Maestro Leone Magiera.

Gli allenatori vocali che imparano l’interpretazione di un’opera e la trasmettono ai cantanti hanno un ruolo decisivo nei teatri lirici perché assicurano alla casa di produzione che i cantanti conoscano la parte, che le interpretazioni siano in gran parte risolte, che le pronunce in lingue straniere siano corrette e che i focolai di crisi nelle parti siano appianati. Ci vuole una profonda competenza musicale e vocale per svolgere un tale ruolo e soprattutto la capacità di comprendere i punti di forza e di debolezza dei singoli cantanti. Sentiamo dalla sua stessa voce di musicista poliedrico e originale i retroscena di una vita dedita alla musica: lo abbiamo intervistato nella sua elegante abitazione bolognese.

Come ha incontrato la musica Leone? È stato il Destino, la programmazione familiare o una passione e un talento innati?

Si tratta di una passione innata, ma di certo stimolata da mia madre. È emersa già all’età di 5-6 anni mentre ascoltavo alla radio il pianoforte di Alfred Cortot – il ricordo è ancora intenso e nitido come quello di quando a tre anni mi innamorai di una bambina che indossava un soprabito blu: mia madre lo intuì e mi fece studiare pianoforte. Certo, in quell’epoca c’era la guerra e in me, come in tutti quelli che l’hanno vissuta, rimane vivida la memoria di un’epoca di povertà e sofferenza ma anche di bei ricordi…

La sua prima moglie è stata il celebre soprano Mirella Freni, a cui ha dedicato il libro Metodo e Mito: Mirella Freni: quanto la condivisione della passione per la musica vi ha unito e quanto vi ha diviso?

La nostra è stata una bella storia di passioni comuni e di crescita insieme: ci siamo incontrati presto, lei aveva 12 anni e io 13; abitavamo in due case vicine e io la sentivo sempre cantare, provare, impegnarsi. In realtà lei era una bambina prodigio: vinse un concorso di canto alla Rai già a 10 anni, non aveva davvero rivali. Ci ha unito la passione per la musica ma non solo, lei mi piaceva molto anche come donna, fu quello non la musica che ci unì più profondamente. Ci siamo fidanzati a 16 anni, siamo stati insieme per oltre trent’anni, 10 anni di fidanzamento e 22 di matrimonio. Avevamo molta stima l’uno dell’altra e abbiamo combattuto insieme per emergere, condividendo gioie e dolori. Io come pianista mi sono diplomato a 18 anni e lei ha iniziato subito a studiare con me. Credevo moltissimo nelle sue doti e ho cercato di imporla, ma i modenesi non amano i modenesi stessi ed è difficile farsi stimare anche se si è bravi, anzi è come se fossero particolarmente critici con i loro concittadini, con Pavarotti stesso si sono comportati allo stesso modo. Non è come a Parma, un parmigiano bravo è motivo di orgoglio per chi è nato nella stessa città, a Modena sei sempre visto con diffidenza. Per fortuna io contattai la persona giusta: riuscii a ottenere un’audizione per Mirella con il Maestro Peter Maag e lui la scritturò per 7-8 opere ad Amsterdam. Da quel momento ha avuto inizio il nostro vero percorso artistico, Mirella aveva una bella voce, una dote naturale che è fondamentale, poi lo studio ha fatto il resto. Devo dire che la musica ci ha unito e non è stato il motivo che ci ha diviso, del resto abbiamo trascorso insieme una vita…

Il suo percorso musicale parte dal canto lirico dove lei è stato Maestro di alcuni tra i più grandi cantanti italiani a partire dalla sua prima moglie e da Luciano Pavarotti: quanto ha dato loro e quanto lavorare con i loro talenti ha amplificato le sue doti?

Lavorare con loro le ha amplificate molto: essendo cantanti talentuosi avevano idee originali che erano in grado di sviluppare in proprio. Mirella, Luciano e io eravamo un trio indissolubile, passavamo le giornate intere a discutere di musica, di canto, di opere, di interpretazione dei grandi musicisti, dei libretti, dei toni, dei ritmi, dei temi: il travaso tra di noi è stato intenso e se io li ho formati, loro sono stati fondamentali per il mio successo, la mia crescita musicale ed emotiva. Lavoravamo a casa come inseparabili amici, solo noi, intensamente avvinti da questa passione condivisa…

Luciano Pavarotti è stato il suo matrimonio artistico più riuscito – durato ben cinquant’anni, delle vere e proprie nozze d’oro, di cui ha raccontato nel libro Pavarotti visto da vicino. Come ha condizionato e arricchito la sua esistenza?

Della relazione a tre, ho già detto. Anche insegnare le opere a lui è stato un arricchimento: io conoscevo la musica, né Pavarotti, né la Freni sapevano leggerla, non sapevano nulla di note musicali e quant’altro, ma avevano una voce… Ero io che dovevo cantare loro le opere, le ascoltavano dalla mia voce – mi sfottevano pure. Non è indispensabile conoscere la musica, il cantante d’opera deve avere un buon orecchio e poi può imparare “a pappagallo”, semplicemente ascoltando e ripetendo… Il musicista invece deve lavorare duramente sulla tecnica, studiando le finezze di ogni spartito, non perdendo mai di vista la giusta chiave, i cantanti invece basta che imparino la melodia, ascoltando diverse volte. Luciano mi dava, però, una grande soddisfazione affermando che bastava che io cantassi perché lui imparasse da me… Quello che è indispensabile è “avere orecchio”: avevo una donna di servizio ignorante come una talpa, ma aveva un orecchio formidabile e suonava le canzoni di Sanremo al pianoforte senza sapere assolutamente nulla di musica dopo averle sentite una sola volta. Anche molti musicisti jazz di chiara fama come Charlie Parker non conoscevano assolutamente la musica. Pavarotti, invece, pur se non sapeva leggere la musica, aveva studiato, possedeva una cultura classica e conosceva anche il latino – era un maestro elementare –, perciò rifletteva e ragionava molto sulle cose musicali. Per esempio l’idea di come dire “Che gelida manina” l’ha trovata lui: per dare l’impressione del gelo bisognava usare una “e” più chiara…

Quando lasciavate il Palcoscenico qual era il vostro rapporto da uomo a uomo?

Da uomo a uomo, parlavamo di donne…

Perché Maestro, secondo lei Nicoletta Mantovani (la seconda moglie di Pavarotti, n.d.a.) nelle interviste anche più recenti non fa mai riferimento al suo rapporto con il tenore?

Abbiamo avuto spesso l’occasione di discussioni vivaci: lei era una ragazzina rispetto a me e a Pavarotti e, quando lui studiava, lei lo disturbava continuamente proponendogli continue interviste. Un cantante di quel calibro ha bisogno di calma e serenità, essendo intensamente immerso in se stesso per poter trovare l’emozione giusta che gli consenta un’eccellente interpretazione. Lei non conosceva bene le esigenze di un cantante, che deve avere lo stile di vita di un atleta. Lo ha voluto spingere sulla strada della musica leggera, io ero assolutamente contrario: quel repertorio non era adatto alla voce di Pavarotti e al suo talento. Non mi stupisce, quindi, che la Mantovani non voglia parlare di me e nemmeno io ho interesse a parlare di lei, abbiamo discusso vivacemente e ognuno è rimasto della sua opinione… Se posso permettermi di parlare di una fragilità di Luciano questa era nel ritmo, quindi la musica leggera non era in grado di mettere in evidenza tutta la sua grandezza, non era quella il suo forte. Io volevo molto bene a Luciano dal punto di vista artistico e non mi piaceva che fosse trascinato in un mondo che non gli apparteneva: la televisione gli ha dato molta popolarità e denaro in Italia, ma negli ambienti internazionali più colti e ortodossi in fatto di musica, queste sue estemporanee comparse sulla scena della musica leggera non gli hanno giovato: che bisogno aveva lui di notorietà oltre a quella che già aveva? E anche di denaro ne guadagnava già tanto, non ne aveva davvero bisogno… Comunque Luciano nella sua lapide ha voluto questa scritta: «Voglio essere ricordato come un tenore…».

Lei ha collaborato con Herbert von Karajan: come ha orientato la sua carriera artistica l’esperienza vissuta con questo grande direttore d’orchestra?

Non so quanto mi abbia orientato, lui era tanto più grande di me, anzi era decisamente il più grande di tutti: tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo bene, lo hanno idolatrato, lo consideravano un Dio. A un certo punto io ho anche provato a dirigere come lui, ma è stato un disastro, non si poteva imitare Karajan: lui aveva una personalità e un carisma eccezionali, nessuno lo eguagliava. Ogni volta che andavo ad ascoltare un’opera diretta da lui, mi pareva un’opera diversa, mi stupivo per le intuizioni di cui era colma, rimanevo davvero a bocca aperta. Quando vidi per la prima volta la sua Carmen, mi sembrò un’opera mai sentita prima: c’è quella prima scenetta iniziale senza molto senso, ebbene lui riuscì a dargli quel senso di indolenza spagnola assolutamente centrato. Era veramente un genio! Quando per esempio dirigeva il secondo marito della mia prima moglie, il basso Nicolai Ghiaurov, lo influenzava profondamente: una volta doveva pronunciare la frase latina “Mors stupebit” e Karajan voleva che la morte gli facesse paura sul serio, così proferì quelle parole con una tale intensità che il cantante riuscì a rendere quella sfumatura di terrore che il grande Maestro gli trasmise spaventandolo davvero. Karajan era un mago e riusciva a estrarre dalle voci dei cantanti tutto quello che si poteva estrarre: il suo carisma e il suo magnetismo riuscivano a dare la giusta emozione a tutto…

Cosa pretendeva dalla sua orchestra e dai suoi collaboratori in genere, fossero essi musicisti, cantanti o allenatori? Come ricambiava il brillare del loro estro?

Pretendeva la verità artistica del momento, della parola, della situazione… Quando interpretava La Bohème si soffermava un buon quarto d’ora su quei due accordi del III Atto che gli consentissero di ottenere dagli archi un suono realmente dolente… Lui richiedeva che ci fosse il coinvolgimento artistico in ogni istante e in tutte le sue sottili sfumature. Se un cantante doveva pronunciare la frase “Tu non mi ami più” lui esigeva che il cuore battesse davvero… A lui piaceva molto la voce di Mirella Freni, gli entrava direttamente nelle vene… E quando aveva a che fare con il talento trasmetteva immediatamente a pelle il suo sincero coinvolgimento…

Cosa significa calcare le scene dei più importanti teatri del mondo? Come ti trasforma un’esperienza simile?

Devo dire che si prova sempre una buona dose di paura: non è mai facile affrontare il pubblico. Basta un calo di voce, un errore impercettibile per mettere a dura prova anche il cantante più affermato. Io prima di riscaldarmi sul palcoscenico ho bisogno di almeno cinque minuti: puoi avere davanti anche 2000-3000 persone e questo ti spaventa. Certo affrontare questa esperienza fortifica immensamente il carattere. Alcuni cantanti sono sempre stati terrorizzati da qualunque pubblico, come Franco Corelli, per esempio, altri invece sono molto forti e determinati. Il pubblico straniero è più tollerante, mentre gli italiani sono più critici, come pure gli spagnoli. Mi è capitato di assistere a dei fiaschi mondiali, ho visto Mario Del Monaco letteralmente trascinato per i piedi dal pubblico infuriato. Il pubblico della Scala di Milano è tra i più terribili, ha la fama di essere un vero e proprio terrorista: una volta Mirella Freni ha preso male una nota e hanno iniziato a insolentirla, siamo dovuti rimanere trincerati nei camerini fino alle due del mattino. Ci ha salvato la fame di Pavarotti che siccome voleva assolutamente mangiare, ha trovato una costumista che somigliava alla Freni e l’ha fatta uscire dall’ingresso principale così siamo potuti sgattaiolare via e andare al ristorante… Fu una serata tremenda, questi momenti ti temprano e ti cambiano. Gli stranieri hanno assolutamente terrore di cantare in Italia soprattutto alla Scala…

Si considera un privilegiato della vita o il successo ha significato altre importanti rinunce sul piano affettivo e della qualità della vita in genere?

Mi considero di certo un privilegiato: sono molto felice della mia carriera piena di successi, ma questo non toglie che abbia dovuto trascurare qualcosa. Mirella e io abbiamo trascurato un poco nostra figlia, fino all’età pre-scolare ce la siamo portata appresso, poi, purtroppo, è dovuta andare a scuola e l’abbiamo affidata ai nonni. Quando le abbiamo spiegato che non potevamo impedirle di avere una vita normale lei ha compreso, le abbiamo dato altre cose, però sono mancati tutti quei momenti di condivisione della quotidianità negli anni della scuola…

Se dovesse descrivere il suo rapporto con la musica e la musica stessa all’uomo della strada, quali parole userebbe?

A questa domanda non saprei rispondere. È molto difficile convincere l’uomo della strada ad ascoltare la musica classica, come è difficile convincere un ragazzino a leggere il giornale. Se uno non possiede la giusta cultura, la musica classica può risultare noiosa, qualche volta ho provato a invitare qualche conoscente a teatro, ma non sono riuscito a coinvolgerlo. Bisognerebbe insegnare la musica nelle scuole in maniera intelligente, non in modo pedante come lo si fa attualmente. Sarebbe meglio che facessero ascoltare ai bambini o ai giovani le opere spiegandone un poco i contenuti. In Germania, per esempio, sono quasi tutti appassionati di musica classica, hanno il pianoforte in casa, in Italia la maggior parte della gente segue piuttosto la musica leggera. Sono solo circa un milione le persone che seguono la musica classica in Italia, una minoranza, ma spesso sono le minoranze a portare avanti le idee…

Qual è lo strumento musicale senza il quale non esisterebbe la musica e perché?

Nessuno strumento musicale è insostituibile, ma di certo il pianoforte è lo strumento più completo perché esprime maggiori armonie, ha un’ampiezza di sonorità. Il violino, per esempio, si suona con quattro dita, il pianoforte, invece, con dieci dita. Consente, quindi, una possibilità maggiore di studio, di apprendimento delle opere, è uno strumento di accompagnamento, direi che è lo strumento principe per i matrimoni con la voce o con gli altri strumenti.

Quale spartito musicale le rappresenta meglio l’innalzarsi al cielo? Quale invece la stimola a stare centrato sulla terra?

Ci sono due opere di Verdi che mi lasciano indeciso sull’innalzarsi al cielo, Don Carlo e Simon Boccanegra, ma a pensarci bene, tra le due, mi sembra più innalzante la prima. Per quanto riguarda un’opera che mi radica a terra mi viene difficile pensarlo, forse Madama Butterfly, ma magari è più facile trovarne qualcuna tra le opere contemporanee…

Con quale dei grandi musicisti del passato le piacerebbe discorrere preferibilmente? Non solo dal punto di vista musicale ma anche in relazione alle sue qualità umane.

Non saprei… forse Mozart… Mi incuriosisce il suo carattere che lo porta talvolta ad essere anche volgare, un po’ satiro, quasi un maniaco sessuale… Questa contraddizione che lo caratterizza, di essere un genio musicale, ma soggetto a delle fragilità come uomo, me lo rende più simpatico e più umano… Mi riconosco anche io, del resto, in queste sue debolezze… Chi è disponibile a lasciarsi andare, a non essere rigido, accettando anche le debolezze umane, mi risulta più amabile…

Sandro Luporini, il pittore-scrittore che ho avuto ultimamente il piacere di intervistare, mi ha raccontato dell’incontro Lettere d’Arte a Bologna nel 2003, dove lei è intervenuto insieme a Michele Serra, Eugenio Riccomini, Adriano Primo Baldi e Rina Cianassi: è stato perché lei è un collezionista di opere d’arte?

Di certo sono stato invitato in quanto collezionista: possiedo dipinti di Luporini, De Chirico, Morandi, Guttuso… La compagnia comunque era stimolante, composta da amici cari, meravigliosi come la Rina Cianassi. Del resto sono appassionato d’arte, ma anche di letteratura, mi piace leggere Thomas Mann, Hesse… Di Luporini, inoltre, non amo solo l’opera pittorica, ma anche la sua figura di paroliere, sia quando diventa profondo e impegnato a livello politico e sociale, sia quando propone melodie leggere come Barbera e Champagne – anche se non è firmata da lui in quanto in quel periodo non era ancora iscritto alla SIAE. Ho visto e apprezzato molti spettacoli, in particolare ho amato Il grigio

Come costruisce il suo fraseggio quando si rapporta con Philippe Daverio? Come vi stimolate vicendevolmente negli spettacoli a due?

Daverio è una persona eccezionale, è affascinante quando parla, è davvero stimolante confrontarsi con lui, possiede una cultura immensa. Mi piace questo suo argomentare fuori dagli schemi, questo suo esprimersi anche nei vari dialetti che lo fa risultare più immediato, questo continuo raccontare in lingue differenti – passa da un perfetto francese a un perfetto tedesco e a un eccellente inglese come se parlasse nella sua lingua naturale – facendo citazioni colte riguardanti la storia, l’arte, la conoscenza in genere… Mi intriga il fatto che si rivolga ai personaggi di un tempo senza trasporre pensieri nostri contemporanei che pongono su di loro inutili etichette, ma calandosi nella realtà del tempo e cercando di comprendere le motivazioni di allora. Mi intriga il fatto che si rivolga ai personaggi di un tempo senza essere condizionato dalla nostra realtà attuale che li vorrebbe inutilmente etichettati, anzi, si cala nel loro periodo storico e cerca di comprendere le motivazioni di quell’epoca. Dal punto di vista musicale lui si fa passare per uno modesto – è anche un esperto di musica e sa pure suonare il pianoforte –, lo fa per rispetto nei confronti della musica…

Quanto influisce il pubblico nelle sue performance? Quale pubblico preferisce e perché?

In teatro, soprattutto nei grandi teatri dove non si riesce a distinguere la faccia della gente, il pubblico sembra tutto uguale, un mostro pronto a sbranarti. Ho già detto quanto siano terribili il pubblico di Milano e anche quello di Parma, si avverte immediatamente la loro iniziale diffidenza. In generale i grandi teatri ti catapultano davanti a un grande pubblico che non riesci subito a percepire, quindi c’è sempre bisogno di un momento iniziale che serve per entrarci in contatto e cominciare a interagirci. Io amo gli incontri intimi, le piccole sale, con le facce che mi guardano sorridenti, come mi capita spesso quando suono in ambienti ristretti e selezionati: allora quei sorrisi accoglienti mi aiutano a sciogliere subito la tensione, la paura e a far scivolare le mani sul pianoforte sicure e decise…

Lei ora vive a Bologna, ma è nato a Modena. Come mai una cittadina a dimensione d’uomo come Modena ha visto nascere e crescere tanti importanti nomi del panorama lirico internazionale? Cosa fermenta in questa piccola città che tramuta ogni suono in musica?

Non si tratta solo di Modena, in Emilia tutte le città hanno avuto cantanti importanti: Reggio Emilia per esempio ha avuto Tagliavini, Bologna ha avuto Ruggero Raimondi, Gigliola Frazzoni, Anselmo Colzani… In Romagna, quando eravamo piccoli, si cantava nelle strade, le nostre nonne, che non erano mai state a teatro, cantavano le arie di Verdi. Romanze come Il ballo in maschera erano, infatti, note anche a livello popolare...

Come incoraggerebbe un giovane a investire sulla sua voce o su uno strumento musicale?

Non lo incoraggerei affatto, c’è una concorrenza spietata, i conservatori sono pieni di giovani che poi non trovano lavoro, per cui purtroppo mi capita di dissuaderli, semmai, a meno che non siano dotati di talenti straordinari… In genere me ne accorgo subito, anche se a volte il talento si sviluppa più avanti come è successo per cantanti come Anna Caterina Antonacci… I tagli alla cultura, alla musica, ai teatri, ai conservatori mi spingono a non avere molta fiducia nella musica come sbocco che sia anche lavorativo…

Se lei non fosse un musicista a tutto tondo, quale altra strada avrebbe potuto percorrere con soddisfazione?

Mi sarebbe piaciuto fare il portiere di calcio o il ciclista professionista. Ho amato molto figure intense e originali come quella di Bartali…

Come potrebbe essere un mondo senza musica? Riesce a immaginarselo?

Un mondo senza musica sarebbe a mio avviso molto triste, ritengo che la musica sia indispensabile per vivere. Anche il silenzio assoluto quando se ne ha bisogno sembra desiderabile, ma dopo qualche giorno di questo silenzio, si sente il bisogno di riempirlo di altri piacevoli suoni…

Ringraziamo il Maestro per questa interessante intervista. Pianoforte, voce, armonia dell’orchestra: un’esistenza trascorsa fra le note, dedicata al tripudio dei suoni colmi di diesis e di bemolle, di spartiti e di tasti da sfiorare. Il silenzio sia semmai il momento prezioso per la concentrazione, per l’immersione in quel mondo fatato dove tutto diventa equilibrio, dolcezza, armonia. Il silenzio sia un attimo prima della festa degli strumenti, che prepari l’animo degli astanti all’ingresso degli archi, dei legni, degli ottoni, delle percussioni… E sia Magiera con la sua bacchetta magica colui che dà corpo alla partitura favorendo la danza degli strumenti, dei tasti e delle corde, delle vibrazioni e dei fiati in tutte le combinazioni possibili.

Nonostante le prestigiose attività svolte in vari ambiti, Magiera è rimasto, però, sempre fedele al suo primo amore: negli ultimi anni si è dedicato infatti al pianismo solistico dove esegue concerti dai quali emergono la sua brillantezza tecnica e l’originale profondità interpretativa che lo caratterizzano. Sia dunque Magiera il pianista pronto a far scivolare le sue mani sull’oceano delle note. Vi ricordate le parole di David Boodman nel film di Tornatore La Leggenda del Pianista sull'oceano? «Tu pensa a un pianoforte. I tasti iniziano? I tasti finiscono! Tu lo sai che sono 88 e su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti loro. Tu sei infinito. E dentro quegli 88 tasti, la musica che puoi fare è infinita. Questo a me piace. In questo posso vivere... ».

Magiera, quindi, su quei tasti vive profondendo sul piano il suo talento e al di là della testimonianza concreta della sua discografia pubblicata dalle più rinomate etichette internazionali che ne fa senz’altro un uomo vincente, mi piace concludere questa intervista con una frase rubata sempre al cinema: «Non si è un perdente se si ha ancora una storia da raccontare…».

Per maggiori informazioni: http://www.leonemagiera.com/