Nel bel mezzo di uno storico concerto a Gerusalemme, all’inizio degli anni ’70, Leonard Cohen smise di suonare. Gli sembrava di non aver niente da dire quella sera. Si scusò con il pubblico, promise di rimborsare personalmente i biglietti, e tornò in camerino. Lì resistette agli inviti della band e degli organizzatori, si spalmò il sapone sulla faccia e si rasò la barba. Poi cominciò a sentire, da lontano, il pubblico, che era rimasto nel teatro e stava cantando in coro lo splendido “Zim Shalom”. Tornò in scena commosso insieme ai musicisti, e chiuse l’esibizione tra le lacrime, in modo trionfale, come testimonia il film “Bird on a wire” di Tony Palmer.

Leonard Cohen è un uomo tutto da raccontare. Ci hanno provato più volte, anche negli ultimi anni. Una biografia accurata scritta da Ira B. Nadel (“Una vita di Leonard Cohen”) è stata pubblicata in italiano nel 2010, e un’altra (“I’m your man”) uscirà in inglese a settembre a cura di Sylvie Simmons, che lo ha recentemente intervistato sulla rivista inglese Mojo. Cohen ha iniziato nei primi anni Sessanta come poeta e romanziere. Poi ha capito che non sarebbe riuscito a vivere dignitosamente pubblicando versi, o con i suoi romanzi difficili, e ha imbracciato la chitarra. Ha messo in musica qualche composizione esistente, ne ha scritte altre. Era il 1968, e da allora il Grande Canadese non ha mai smesso di cantare. O meglio, a dire la verità si è preso varie pause, alcune molto lunghe, e in oltre quarant’anni ha dato alla luce solo dodici album in studio, più qualche live. Ha vissuto in Grecia, sull’isola di Hydra, poi a Nashville, a Montreal (la sua città) e in California, per citare qualche tappa. Per molti decenni ha suonato in pubblico poco e controvoglia, pur regalando sempre grandissime emozioni.

E’ passata una vita, e non per modo di dire. Oggi vive a Los Angeles, al primo piano di una piccola villetta con giardino, in una bella zona residenziale. Sotto di lui abita la figlia Lorca, che ha una bambina di un anno, avuta dal cantautore (gay) Rufus Wainwright, anche lui figlio d’arte (il padre è Loudon Wainwright III). Cohen si è interessato di spiritualità per tutta la vita, ha trascorso buona parte degli anni ‘90 sul Mount Blady, vivendo come un monaco buddista. E’ stato a lungo depresso, ha fatto uso di droghe, ha una fama di dongiovanni in cui in parte si è crogiolato, e i suoi rapporti con le donne sono stati spesso burrascosi. Ora sembra aver raggiunto la serenità al fianco della compagna, Anjani Thomas, di venticinque anni più giovane di lui.

Prima del tour triennale, dal 2008 al 2010, non aveva tenuto un concerto per quindici anni, fatto di cui oggi si rammarica. A cambiargli ancora una volta la vita è stata, com’è noto, la ex manager, che si è fatta fuori quasi 5 milioni di dollari, obbligandolo a rimboccarsi le maniche e montare le corde nuove alla chitarra. E’ partito un lunghissimo giro per il mondo, che ha toccato l’Italia per tre estati di fila, e personalmente mi sono seduto due volte (di cui una conquistando un biglietto di prima fila, come testimonia il mio faccione nella foto) davanti a uno dei miei idoli nel campo della musica.

Quello che mancava, specie dopo il (per me) deludente “Dear Heater” del 2004 era un disco con nuove canzoni, e a colmare la lacuna è stato il recente “Old Ideas”, la novità musicale più eccitante di questo 2012. Potevamo sperare che un autore straordinario, e da sempre pigro, fosse rinvigorito dalle acclamazioni e dal tributo d’affetto ricevuto in ogni angolo del pianeta, ma che un signore vicino agli ottanta mettesse insieme dieci canzoni di questa qualità forse non lo immaginavano nemmeno i fan più affezionati. Tipo me.

Il titolo “Old Ideas”, già pensato per il lavoro precedente, allude alla volontà di guardarsi indietro, osservare la propria vita e la condizione umana con la calma e l’abbandono che oggi il settantottenne Leonard può permettersi. Ci sono come sempre testi molti intensi, in cui nemmeno una parola è sprecata. La musica non spinge mai sull’acceleratore, e del resto con rarissime eccezioni (“The Future” per esempio) è questo il suo marchio di fabbrica.

L’esordio è affidato a “Going Home”, in bilico tra una consapevole malinconia e la volontà rasserenante di tornare a casa, “dove c’è qualcosa di meglio (…) oltre il sipario, senza il costume che ho indossato”. Cohen qui parla di Cohen, “uno sportivo e un pastore, un pigro bastardo sempre elegante”. “Tell me again when I’m clean and I’m sober/ Tell me again when I’ve seen through the horror/ Tell me again tell me over and over/ Tell me that you’ll want me then”. “Amen” è sostenuta da un tappeto sonoro discreto e dal controcanto dell’immancabile Sharon Robinson. La voce si fa sempre più cavernosa, e mormora la preghiera di “Show me the place”, in cui chiede aiuto sul dove andare (“L’ho dimenticato, non lo so”) prima dello splendido verso “I problemi sono venuti/Ho salvato ciò che potevo/Un filo di luce, una particella, un’onda”. “Darkness”, eseguita dalla band del tour, guarda in faccia la prospettiva più nera: “Non ho futuro/so che i miei giorni sono pochi/Il presente non è piacevole/più che altro molte cose da fare”.

Dall’ironia corrosiva di “Anyhow”, “I dreamed about you, baby/ you were wearin’ half your dress/ I know you have to hate me/ but could you hate me less?”, si passa alla chitarra folk di “Crazy to love you”, che ricorda più del resto il Cohen del passato lontano. Le voci delle Webb Sisters introducono “Come Healing”, subito prima di una digressione tra blues e country, “Banjo”. “Lullaby”, l’avevo già già ascoltata a Firenze: “Se il tuo cuore è lacerato, non mi chiedo perché/se la notte è lunga, ecco la mia ninna nanna” mentre la chiusura è affidata a “Different Sides”, forse il brano più pop sul piano musicale. Le parole, invece, indagano ancora una volta misteri insolubili: “We find ourselves on different sides/ of a line nobody drew/ Though it all may be one in the higher eye/ down here where we live it is two”.

Il consiglio che posso darvi non è quello di una persona obiettiva in materia, come avrete intuito. Nondimeno vi istigo a comprare il magnifico cofanetto con gli undici album in studio (“The complete Studio Collection”) uscito alla fine del 2011 e sul mercato a un prezzo favoloso, considerando che tutti i dischi sono rimasterizzati (otto dei quali per la prima volta). Purtroppo dentro non ci troverete “Old Ideas”, e dovrete spendere qualche altro euro (non molti, se avete dimestichezza con i negozi on line) per portarvelo a casa. Difficilmente potrete pentirvene.

Pro memoria biblio-fimo-discografico

Leonard Cohen, “The Complete Studio Albums Collection”, Sony Music, 2011.
Leonard Cohen, “Old Ideas”, Sony Music, 2012.
Ira B. Nadel, “Una vita di Leonard Cohen”, Giunti, 2010.
Sylvie Simmons, “I’m Your Man. The true life of Leonard Cohen”, in uscita a settembre 2012.
“Bird on a wire - A Tony Palmer’s Classic Film”, riedizione TMC, 2010