Questo scritto sarà breve ma avrà delle caratteristiche e un tenore tali da richiedere una doverosa prefazione. Questa necessità nasce dalla irrefrenabile voglia di parlare di montagna pur partendo dalla consapevolezza di non essere un alpinista e quindi, come tutti coloro che amano perdutamente ciò che non possono avere, parlano dell’oggetto amato con una passione, un trasporto e un’enfasi tali che altri, magari più ‘tecnici’ e disincantati, possono trovare retorica se non addirittura stucchevole. A questi ultimi mi rivolgo affinché NON leggano questo articolo.

Se qualcuno si dirigesse a Oriente lungo il 35mo parallelo, percorrendo a volo d’aquila la via della Seta, arriverebbe a un punto, più o meno a 74° di longitudine Est, in cui dovrebbe per forza virare a Nord o a Sud perché vedrebbe ergersi improvvisamente a sbarrargli il cammino una gigantesca montagna coronata di nevi eterne. È la sentinella occidentale della più grande catena montuosa della Terra a sbarrargli la strada, costringendolo a sorvolare, magari, il deserto del Taklamakan a Nord o a scapolare a Sud le altre cime schierate dopo di lei, verso Sud-Est. È il Nanga Parbat e anche se non è la vetta più alta del pianeta, perché è solo all’ottavo posto della classifica, è comunque la montagna più grande e massiccia della Terra. Non abita remota e irraggiungibile tra immensi ghiacciai, circondata dalle sorelle come il K2 o l’Everest, ma si erge solitaria dalle fertili e popolose pianure del Pakistan quasi a portata di mano, affinché tutti la possano vedere, adorandola o maledicendola a seconda dei casi. Forse proprio perché si trovava lungo la via della Seta, l’antica pista carovaniera che univa la Cina al Mediterraneo, che il Nanga Parbat ha sempre affascinato i viaggiatori e, più recentemente, gli alpinisti di tutto il mondo prima di tutti gli altri ottomila e, infatti, anche recentemente, è balzata agli onori della cronaca per un tentativo di scalata invernale finito in tragedia.

Già nei decenni passati si era parlato di lei come della “montagna del destino” o della “montagna assassina” dopo che il più grande alpinista di ogni tempo, l’altoatesino Reinhold Messner vi perse il fratello Günther scendendo forzatamente lungo quella via inesplorata, individuata alla fine dell’Ottocento dal suo celebre collega Albert Mummery e che porta tuttora il suo nome. Ebbene, circa una decina di giorni fa due ragazzi, giovani ma esperti alpinisti, hanno intrapreso la salita proprio lungo quella lama di roccia verticale, sovrastata da un micidiale ghiacciaio, da cui scesero i fratelli Messner più di quaranta anni fa. Dopo pochi giorni, si sono perse le loro tracce e dopo pochi giorni sono state avvistate dagli elicotteri due sagome umane a circa seimila metri di quota, risultati poi essere i corpi, oramai senza vita, dei due scalatori. Le proibitive condizioni climatiche e le tensioni tra India e Pakistan per la questione del Kashmir non consentono il recupero delle salme che rimarranno probabilmente per sempre sullo sperone Mummery lungo il versante Diamir, parete Nord-Ovest del Nanga Parbat.

E questa è la nuda cronaca, ma dietro gli scarni comunicati dei club alpini locali e delle spedizioni di soccorso rimangono a straziarci le interviste che i protagonisti di questa tragedia hanno rilasciato prima di partire per la spedizione che sarebbe costata loro la vita, dove con entusiasmo cercavano di spiegare le motivazioni che sono dietro una impresa così follemente rischiosa.

Più che le parole sono gli sguardi e la luce che brilla nei loro occhi la cifra di una passione così totalizzante e imperiosa. In realtà solo chi, romantico sognatore, abbia visto anche solo una volta nella vita quelle montagne celesti può forse capire chi si perde per loro e cosa si celi dietro le famose parole di George Mallory, tre spedizioni sull’Everest di cui l’ultima gli costò la vita, quando gli chiesero: “Perché vuole scalare l’Everest?” E lui rispose: “Perché è Lì”.

Io le ho viste anni fa, in Nepal, quelle montagne. Ero arrivato la sera prima a Pokhara, caotico villaggio sherpa sul lago Phewa a circa seicento metri di altitudine, e quella notte non ero riuscito a riposare granché, in quel soffocante alberghetto sul lungolago, squassato dai temporali monsonici e circondato da boschetti di strani alberi che di notte davano rifugio a stormi di uccelli rumorosissimi. A un certo punto mi svegliò il suono del silenzio perché i ciarlieri abitatori dei boschetti erano ammutoliti di colpo per una qualche loro misteriosa ragione. Disperando di riprendere sonno, decisi allora di uscire a fare due passi tanto, tra le piogge monsoniche e l’umidità della stanza, non c’era gran differenza. L’aria era rinfrescata per un vento da Nord che lacerava la grigia nebbia che di notte calava sul lago. Era ancora buio eppure una strana luminescenza color cremisi sembrava irradiare da un punto perduto tra le nebbie di là dal lago. Pensai fossero le prime luci dell’alba solo che la strana luminosità arrivava da Nord-Ovest mentre la luce avrebbe dovuto sorgere a Est... poi finalmente capii, perché il vento spazzò il cielo, e allora compresi che se per me laggiù l’alba era ancora lontana, per quelle meravigliose, irreali piramidi che vedevo svettare ad altezze inconcepibili oltre il lago e le brume, il sole era già sorto e le illuminava di una luce d’oro rosso mentre tutt’attorno a me era ancora buia notte. Erano le cime dell’Annapurna e del Machapuchare che ottomila metri più in alto avevano colto molto prima di me la luce del sole e ora risplendevano come immensi diamanti di ghiaccio e nevi eterne per la gloria del mondo. Io ero rimasto come liquefatto e mi aveva colto un desiderio bruciante di essere là dove ardevano quelle montagne sublimi, di una bellezza e di una purezza assolute per dissolvermi in loro perché là nel silenzio, dove ardeva la fiamma imperitura, sicuramente si posava lo sguardo di Dio.

Ecco cosa avevo provato la prima volta che mi si presentarono in gran parata nella luce del mattino e sempre, da allora, quell’immagine mi risplende in fondo al cuore, evocata come un balsamo profumato quando mi pare di soffocare nel lezzo della banalità quotidiana. Ed è soprattutto nella rievocazione che si ravviva il desiderio di tornare col corpo o con la mente su quelle montagne celesti, e se una pulsione così forte coglie me, che sono solo un pesante ramingo pellegrino, che forza deve avere questa ‘pulsione’ in quegli uomini temerari, quei semidei dai polmoni e dalle gambe d’acciaio come i due ragazzi che qualche giorno fa si sono perduti sul Nanga Parbat? Certo vi saranno anche ambizioni ‘mondane’ e prosaiche a spronarli, il miraggio di acquisire ricche sponsorizzazioni, la fama, la competizione possono contribuire a spingerli oltre i limiti. Ma non può esserci solo questo. Sì, spesso gli alpinisti sono poco comunicativi e se parlano non sempre ciò che ci dicono è all’altezza di ciò che rappresentano perché in loro c’è qualcosa che è più grande di loro stessi!

Allora sono io, come l’aedo canuto del Pascoli che chiede la cetra ad Achille nella sua ultima notte per cantarne la grandezza, che cerco di parlare degnamente degli eroi delle montagne. Perché per noi, intellettuali dal doppio mento e dalle grosse cosce, è grande il valore simbolico che ammanta, probabilmente loro malgrado, uomini come questi. Per chi poi, come me, guarda il mondo con una visione trascendente questo valore è ancora più grande perché in un’epoca come la nostra, che sembra avere bandito con cura ogni forma di spiritualità e profanato con l’occhio pornografico dei satelliti anche l’angolo più nascosto della più arcana delle foreste, un individuo che si porta, anima e corpo, su quelle montagne sovrumane è, almeno per me, ciò che oggi più assomiglia a quegli anacoreti, a quei Padri del Deserto che cercarono la Gloria o il martirio nel deserto Siriaco, più di millecinquecento anni fa.

A questo punto spero veramente che nessun alpinista, seguendo l’avvertimento della prefazione, legga mai questo scritto, perché che siano ruvidi bevitori o disincantati laici e ipertecnologici atleti, probabilmente riderebbero di me o cercherebbero di allungarmi un calcio nel sedere, eppure, c’è qualcosa di spirituale nella loro disciplina e le loro imprese più temerarie e disperate hanno qualcosa che ricorda una preghiera.

E mi piace credere che quel Dio che, dicono, si nasconde lassù dietro le nuvole sulle sue montagne e che ama gli umili e i poveri di spirito e detesta gli orgogliosi e i superbi, deroghi per una volta tale inclinazione, e perdoni coloro che, sicuramente peccando di orgoglio e tracotanza, sono saliti così in alto forse per cercare proprio Lui, e si sono perduti. Magari scenderà dal suo fulgido trono su quelle nude pareti, ricomporrà quei poveri corpi scomposti nei loro piumini colorati rianimandoli, aggiusterà loro l’imbrago e dopo un lungo predicozzo sulla vanità della loro superbia, perché il vero Everest, l’unico ottomila che valga davvero la pena di scalare si erge dentro ognuno di noi, li rimetterà in fila ponendosi a capocordata e brontolando se li porterà con Lui sulle montagne del Paradiso.