Alla vigilia dei campionati mondiali di calcio che si sarebbero svolti in giugno negli Stati Uniti, la direzione di Ulisse2000, rivista internazionale di bordo di Alitalia per la quale collaboravo, agli inizi del 1994 mise in scaletta un servizio sul grande appuntamento sportivo. Date anche le caratteristiche del magazine, più che uno speciale di natura tecnica, con le solite notazioni su squadre, schemi, biografie, orari, previsioni, fu ipotizzata una serie di testimonianze a tema da chiedere ad alcuni tra i mille protagonisti della lunga storia della prestigiosa e seguitissima coppa del mondo.

Fu così che accanto a Pelè, il monumento-simbolo del calcio stesso, a Michel Platini, anche nel suo ruolo di organizzatore dei mondiali di Francia, a Bobby Charlton, il calciatore più famoso dell’Inghilterra campione del mondo nel 1966, proposi di chiedere un ricordo a Silvio Piola, il cannoniere azzurro per antonomasia, il centravanti della nazionale di Pozzo trionfatrice ai mondiali del 1938. Sembrava infatti giusto che il longevo calciatore vercellese meritasse questo inserimento in una per quanto ristretta galleria di campioni, l’unico italiano che potesse competere a livello internazionale con quei grandissimi e con loro inneggiare, sia pure indirettamente, allo sport di squadra più seguito e popolare, forse - malgrado le forzature tattiche e quelle del tifo - anche il più bello del mondo.

Schivo la sua parte ed ancorché già in avanti negli anni, Silvio Piola non respinse la proposta e ricordò il suo esordio in Nazionale nel 1935, la vittoria di Parigi, la memorabile partita di Firenze quando nel 1952, all’età di 39 anni, chiuse magistralmente la sua carriera in azzurro guidando l’Italia ad uno storico pareggio con i “maestri” inglesi. L’Italia calcistica stentava in quegli anni (ripetiamo: erano i primi anni Cinquanta) a trovare il bandolo di una matassa andata perduta nel tragico rogo di Superga: pur non mancando di talenti individuali che farebbero ancor oggi ricco il patrimonio di qualsiasi società, era incerto l’incedere perché nessuna delle squadre di club era in grado di proporsi come era successo con il Grande Torino.

Né l’utilizzo di calciatori provenienti dall’estero e le diatribe a livello gestionale di Federcalcio e Nazionale potevano aiutare a risollevare il tasso tecnico e tattico del nostro calcio. La stessa presenza del trentanovenne Piola al centro dell’attacco contro gli inglesi la diceva lunga della forza della disperazione, si può dire, con la quale i selezionatori di allora cercavano lumi per indovinare la strada giusta. Ma malgrado quell’exploit (un pareggio contro l’Inghilterra, vincitrice in guerra, maestra di football, con noi sempre arcigna e inflessibile con punteggi spesso inequivocabili, era sempre salutato con giubilo), ed altri alternati a esibizioni francamente modestissime, il calcio italiano avrebbe dovuto attendere almeno un paio di lustri ancora prima di cominciare a capirci di nuovo qualcosa, dopo i trionfi anteguerra rimasti a lungo senza seguito.

Piola uscì dal calcio giocato con quella prestazione memorabile: ed entrò nella storia. Per quei misteriosi ricorsi della vita, il mio personale ricordo di Silvio Piola salda dunque il contatto con quella partita di congedo dalla Nazionale. E fu proprio Piola, l’eroe di quel pomeriggio vissuto da lontano, ‘incollato’ con gli amici dell’oratorio alla voce di Niccolò Carosio, ad entrare di prepotenza nella mia personale galleria di campioni, che successivamente avrei coltivato in altra maniera per una scelta professionale decisa da un destino certamente, ma non esclusivamente, ‘pallonaro’. Piola è tuttavia nelle gallerie di ciascuno di noi che ami il calcio. Ed il suo stile, la sua bravura, il suo coraggio, in campo e fuori, ne hanno fatto e tuttora ne fanno un esempio ben al di là dei suoi titoli calcistici, dei suoi stessi record, le reti segnate, le astuzie, le acrobazie, la longevità atletica segno inequivocabile anche di integrità fisica e di sana gestione personale. Pure, anche Piola ha dovuto patire le ingiustizie di scelte maturate a fatica nell’ambiente della Nazionale, se è vero, come narrano i biografi, che il suo esordio in azzurro avvenne per una ‘sollecitazione’ del presidente federale nei confronti del commissario tecnico: Pozzo, infatti, non riteneva il giovanissimo, ma già in evidenza, vercellese all’altezza di sostituire il centravanti titolare, Meazza, infortunato. E fu proprio il diktat di Vaccaro a costringere Pozzo all’evidenza e Piola a una doppietta al Prater di Vienna che gli aprì finalmente la strada del Mito.

Ma c’è un altro episodio che mi sembra giusto citare a proposito di Piola, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita: il grande calciatore, in occasione dell’apertura dell’anno accademico dell’Università per la Terza Età, ricevette dalle mani del presidente pro tempore del Coni, Franco Carraro, la laurea d’onore di quella istituzione. Invitato da Giampaolo Cresci, presidente ed “inventore” di quella antesignana università sui generis, fui anch’io sugli spalti di quel luogo, il palazzetto dello sport a Roma, tradizionalmente deputato ad ospitare gare di varie discipline ed allestito per una manifestazione solo in qualche modo legata allo sport. La consegna di una laurea, sia pure ad alcuni campioni di sport che quel titolo accademico avevano comunque ben meritato (oltre a Piola, ricordo, venne a prendersi il premio un altro Grande dello sport, Zeno Colò), contrastava un po’, a ben guardare, con le volte nerviane che dal 1960 sono abituate a registrare exploits di ginnasti e cestisti, schermidori e pallavolisti, pugili e lottatori, judoka e pongisti. Fu lo stesso una grande festa, una festa di amicizia e di solidarietà, di entusiasmo e di riconoscenza: accanto ad anziani più o meno anonimi, furono festeggiati anche i grandi dal nome famoso e dalle glorie sportive rese celebri dalla facilità e dalla repentinità con la quale il successo sportivo si propaga, oggi ben più di ieri, ma ieri con forse più genuini entusiasmi di oggi.

Molti anni sono trascorsi da quella serata capitolina. Piola, settantatreenne ben messo, sorrideva con quel suo viso ossuto, solo un po’ più calvo ed incanutito di come lo si ricordava nelle foto dei suoi trascorsi calcistici. Lo osservai a lungo, da lontano: come un bambino timido, non osai neppure avvicinarmi a stringergli la mano, come pure mi sarebbe stato possibile, per la mia qualifica, ahinoi, di giornalista sportivo. Cosa avrei potuto balbettare: che lo ricordavo splendido protagonista di un’Italia-Inghilterra ‘vista’ con la voce di Carosio? O che conoscevo tutte le sue date, i suoi riferimenti agonistici, la sua storia, le formazioni delle squadre nelle quali aveva militato e vinto? Mi sarebbe parso da sciocchi. Pur a distanza di anni, quella mancata stretta di mano non la rimpiango. Perché, credo, è come se gliela avessi stretta per davvero: questo ricordo non ne è forse la prova? Grazie ancora, Silvio.