Con la bicicletta si può andare vicino o lontano, scoprire e conoscere.

Per questo la bicicletta è stata importante per l’emancipazione femminile, garantendo alle donne la possibilità di muoversi al di fuori dei rigidi confini della propria dimora e lontano dal severo controllo degli sguardi altrui.

Emile Zola ha considerato la bicicletta uno strumento adatto a far superare la discriminazione tra i sessi. Nel romanzo Il ventre di Parigi del 1873, ha espresso il suo pensiero attraverso le parole della protagonista Maria: “Se mai avrò una figlia, la metterò in sella a una bicicletta già a dieci anni, perché impari subito come deve comportarsi nella vita”.

Tante erano le barriere da abbattere e tanti gli ostacoli da superare. La bicicletta era considerata uno strumento del demonio, se inforcata da gambe femminili.

Anne Londonderry Kopchovsky ha sfidato i pregiudizi con la sua avventura iniziata nel giugno 1894: la prima donna a fare il giro del mondo in bicicletta. Ebrea lettone, emigrata negli Stati Uniti, sposata e madre di tre bambini, all’età di ventitré anni, in seguito a una scommessa: “nessuna donna è in grado di compiere in quindici mesi il giro del mondo”, abbandonò la famiglia e, lasciando nel guardaroba le gonne lunghe e i corsetti, partì da Boston con una bicicletta Columbia. Si finanziò mostrando cartelli pubblicitari addosso e sulla bicicletta. Adottò perfino il cognome Londonerry, firmando un contratto con la Londonerry Lithia Spring Water.

Arrivò in Cina passando per Parigi, Gerusalemme e Singapore, superando incredibili difficoltà e sopportando innumerevoli calunnie: “troppo mascolina per una donna… deve essere un eunuco travestito” e persino la prigione.

In patria ebbe un’accoglienza trionfale. Quando tornò a Boston, 15 mesi dopo, era una donna diversa: con i pantaloni e con una bici da uomo.

La sua esperienza produsse un notevole impatto sull’atteggiamento femminile dell’epoca e venne eletta simbolo della lotta femminile.

Nel frattempo anche in Italia stava diffondendosi l’interesse femminile per la bicicletta.

Nel 1895 Edoardo Bianchi fu invitato a corte, nella Villa Reale di Monza, dalla Regina Margherita che aveva sentito parlare delle sue originali biciclette e voleva imparare a cavalcarle. Bianchi realizzò appositamente per lei la prima bicicletta da donna.

L’americana Susan B. Anthony, avvocato per i diritti civili e simbolo del movimento per l’emancipazione femminile, dichiarò nel 1896: “Lasciate che vi dica cosa penso dell’andare in bicicletta. Penso che la bici abbia fatto per l’emancipazione delle donne di più di ogni altra cosa al mondo. Dà alle donne la sensazione di libertà e di completa autonomia. Gioisco ogni volta che vedo in giro una donna pedalare… immagine senza ostacoli della libera femminilità”.

Alfredo Oriani nel 1918 ha detto: “Il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà, forse meglio di una liberazione andarsene ovunque, ad ogni momento, arrestandosi alla prima velleità di un capriccio, senza preoccupazioni…”.

La conquista della libertà è stata lenta e faticosa, pur segnata da eventi epocali: la sfilata di fanciulle in occasione della riunione ciclistica organizzata a Ferrara nel 1902 dal Touring Club Italiano, le imprese di alcune cicliste come Alfonsina Strada (unica donna che partecipò al Giro d’Italia nell’edizione del 1924, magistralmente rappresentata a teatro da Federica Molteni) e Adelina Vigo, rivali di tutto rispetto nelle corse riservate al sesso forte.

Quando le donne, abbandonata la reticella di protezione alla sottana e indossati i pantaloni, hanno preso tranquillamente la bici del fratello o del marito, si assiste a una vera rivoluzione. Si riteneva, infatti, che l’indossare i pantaloni avrebbe reso le donne dei maschiacci, le avrebbe private della giusta femminilità o le avrebbe fatte diventare addirittura lesbiche, portate spesso a stare fuori casa, inducendole con più probabilità al tradimento o peggio a condurre una vita di facili costumi.

L'evoluzione della bicicletta si concretizza nei modelli da donna, come la famosissima “Graziella”, i tandem e le biciclette da corsa, diventando di uso comune dalle prime esponenti del movimento femminista alle partigiane e oggi, nella quotidianità nelle nostre città, nel cicloturismo, nonché nelle gare sportive.

La bicicletta ancora non ha esaurito la propria forza emancipatrice e le parole della Anthony sono ancora cariche di valore. Ne è la dimostrazione La bicicletta verde di Haifaa Al-Mansour, prima regista donna dell’Arabia Saudita, film che ha come protagonista Wadjda, un’adolescente col desiderio di possedere una bicicletta, proprio quella verde, il colore dell’Islam, vista in un negozio vicino a casa. Questo in un Paese dove alle donne era vietato circolare a viso scoperto, rimanere sole con un uomo che non fosse di famiglia, guidare un’automobile e persino andare in bicicletta.

Sarà stato l'effetto film, ma finalmente alle donne saudite è stato riconosciuto il diritto di andare in bicicletta. È una conquista storica che ha spianato la strada per la loro emancipazione. L'autorità religiosa dell'Arabia Saudita ha concesso alle donne di andare in bici sulle strade pubbliche, in zone limitate come parchi e spazi ricreativi, solo se indossano l'abaya e rigorosamente accompagnate da un parente. "Le donne - scrive il quotidiano saudita al-Yaum, citando una fonte della commissione per la Promozione della virtù e la Prevenzione del vizio - sono libere di andare in bici nei parchi, sul lungomare e in altre aree a condizione che indossino abiti modesti e che sia presente un guardiano in caso di cadute o incidenti". La stessa commissione ha precisato di non aver mai vietato la bicicletta alle donne straniere. Per quanto riguarda quelle saudite il permesso si limita allo scopo "di divertimento", non dovranno cioè usare le due ruote come mezzo di trasporto.

Se l’Arabia Saudita ha fatto un piccolo passo avanti per l’emancipazione femminile, lo stesso non si può dire dell’Iran e dell’Afghanistan e, in minor misura, del Pakistan dove una donna in bici, seppur non soggetta ad alcun divieto, può suscitare scandalo e non è ben vista dall’opinione pubblica.

In Afghanistan una squadra di ciclismo femminile si era posta l’obbiettivo di partecipare alle Olimpiadi 2020 in Giappone. Le ragazze avrebbero voluto sfidare i pregiudizi e mostrare al mondo un volto diverso del proprio Paese. Il loro sogno è finito in tanti pezzi, così come le bici con le quali avevano scoperto la libertà. La loro storia è diventata un film, Afghan Cycles e le ragazze non hanno abbandonato il loro progetto, grazie anche alla Federazione ciclistica italiana che le ha ospitate e fornite di altre biciclette.

Antonella Bianco, che si è interessata della bici al femminile, ha realizzato il documentario Voglio una ruota che porta alla luce vittorie e battaglie da Miss Londonderry a Paola Gianotti.

Paola Gianotti ha fatto il giro del mondo stabilendo un nuovo record ed è stata protagonista di alcuni importanti progetti solidali, come “La speranza viaggia in bicicletta”: una campagna fondi per donare 73 bici ad altrettante donne ugandesi. Nel gennaio 2016 è stata anche la testimonial della campagna Bike The Nobel, promossa da Rai Radio 2 e ha portato, in bicicletta da Milano a Oslo, oltre 10.000 firme per candidare la bici al premio Nobel per la Pace.

Protagonista di solidarietà è anche la record woman Anna Mei. Le sue sfide ciclistiche sono per i “bambini farfalla”. Dal 2010 è testimonial di Debra Sudtirolo, associazione di volontari che danno sostegno e consulenze alle famiglie di malati di epidermolisi bollosa. Come dice lei: “Io sono le loro gambe, loro le mie ali”.

Incisive sono parole di Antonella Bianco: “Non bisogna andare troppo lontano per capire che la parità dei diritti è ben lontana persino in Occidente, in cui il ciclismo femminile è visto come uno sport minore rispetto a quello maschile. In Italia, per esempio, non esiste una legge che riconosca le donne atlete come professioniste, con tutta la disparità economica e sociale che ne consegue. Ragazze che vincono medaglie d’oro in competizioni internazionali gareggiano come dilettanti”.

Sempre più donne stanno abbracciando anche il mondo del ciclismo amatoriale, chi per semplice divertimento, chi per sfidare se stessa e cercare di andare oltre i propri limiti, come Ausilia Vistarini che ha portato a termine tre volte l’Iditarod Trail Invitational in Alaska: una gara ciclistica fra le più dure al mondo, di ben 1800 km, stabilendo nell’ultima il record del percorso.

Che le due ruote non siano solo un mezzo di trasporto, di divertimento o sportivo, ma anche un mezzo di emancipazione femminile è il messaggio che diffondono, ogni anno, migliaia di donne in tutto il mondo, partecipando a Fancy Women Bike Ride, evento nato a Izmir in Turchia. È una pedalata fancy, fantasiosa, leggera e gioiosa, che diventa un momento di affermazione per le donne che vogliono visibilità sulle strade e nella società. “Il fenomeno dei cambiamenti climatici ci ricorda in modo sempre più pressante quanto sia importante e urgente cambiare i nostri stili di vita in un’ottica più sostenibile”, riferisce Pinar Pinzuti, coordinatrice internazionale della Fancy Women Bike Ride. “Più donne usano la bicicletta, più donne saranno incoraggiate ad andare in bici perché questo è ciò che serve al nostro pianeta. Sappiamo che dobbiamo cambiare le nostre abitudini, perché non farlo in modo piacevole e festoso? Quale momento migliore per indossare quell’abito che tanto amiamo e che sta sempre nell’armadio per cui manca sempre l’occasione?”.

La bicicletta non è solo un oggetto a due ruote, due pedali, catena e pignoni: è cultura. Il ciclismo al femminile ha bisogno di guardare avanti, oltre ogni esasperazione. Non per niente si dice che la bicicletta è rosa perché sono le donne che l’adoperano di più negli spostamenti urbani.